lunedì 17 dicembre 2012

Grillo, tra salvezza e ginegogia

Scrivo ancora una cosa su Grillo, poi basta.

Ieri sera è venuto a Trieste. Una marea di gente. Una marea. Specie se si considera la vitalità dei triestini, la leggendarietà della cui pigrizia è stata definitivamente infranta dalla spettacolare manifestazione in Porto Vecchio contro il rigassificatore. Tondo se n'è andato dopo dieci minuti, Clini neanche è entrato. Uno spettacolo.
Dicevo. Erano tutti in coda: una svendita di Iphone5? No, per Dio. Erano, eravamo, lì, a firmare per avere alle prossime elezioni un'alternativa. Non si sa fino a che punto salvifica e futuribile, ma è almeno un'alternativa. In fondo, peggio di così non si può andare - no? Davvero? Mah.
Aver osservato Grillo dal vivo per la prima volta - e sticazzi - mi ha spinto a diverse considerazioni, che quivi inoltro ad elencare: alcune positive (P) e altre su cui riflettere pensosamente (R).

1P) Se mai ve ne fosse bisogno, confermo: Grillo è un comunicatore eccezionale. E i brividi, ogni tanto, son venuti. Per smuovere le mummie che siamo occorre un po' di adrenalina, di flebo che introduca in un sangue marcio la sensazione concreta di essere, per una volta, parte di qualcosa.
E' probabile che il primo Berlusconi seppe compiere la stessa impresa: ma se stavolta, anziché ad evadere le tasse, la gente sarà spinta a consumare meno e usare le rinnovabili, tutto sommato potrei ritenermi contento.

1R) Grillo è forse troppo bravo. La sua bravura coincide col suo essere ancora una bestia da palco, il che alimenta il Fattore - Messia: la gente vuol salutarlo, stringergli la mano, farsi la foto con lui. Vuole - l'udii più volte- toccarlo. Toccarlo. Ecco, sarebbe d'uopo non avere certe fregole in testa. Grillo sta facendo grandi cose, ma guai a divinizzarlo. Ci si tolga subito 'sta smania per il simulacro, e l'adorazione spicciola lasciamola nelle parrocchie.

2P) Grillo, almeno nella prima ora, non ha detto nemmeno una parolaccia, per citare il povero - a sua insaputa - Follini. Nemmeno una. Tranne l'ormai usuale "cazzo cazzo - culo culo" per le telecamere. Poi, nell'ultima parte, si è un po' scaldato e qualcuna gli è scappata. Dal conteggio si evince una percentuale di volgarità profuse infinitamente inferiore a quelle registrate nei primi otto minuti di un qualsiasi film di Christian De Sica. Bravo: se la porta a zero, Gianni The Pen Riotta si rassegnerà a defolloware pure se stesso.

2R) Troppa retorica sugli italiani: "SIAMO I MIGLIORI DEL MONDO!!!": va bene ritrovare la fiducia identitaria nazionale, Grillo, ma, come si dice: anche no. Non lo eravamo trent'anni fa, e di certo non lo siamo oggi.
Poi, d'accordo, se giochiamo sul piano dei doni all'Umanità, un Paese ritenuto all'avanguardia assoluta, come la Svezia, (che ha donato sì e no l'Ikea e Filippa Lagerback, e di entrambi avremmo fatto volentieri a meno), ce lo mangiamo a colazione. Ma il credito sarebbe anche esaurito: per ora usiamo l'imperfetto, ché un po' di pudore non guasta.

3P) Il Movimento pare voler dare importanza agli studi, alle lauree, ai master. Visti i parlamentari che ci troviamo, forse è una buona cosa.

3R) Grillo dà troppa importanza agli studi, alle lauree, ai master. "I NOSTRI CANDIDATI HANNO TUTTI ALMENO UNA LAUREA SE NON ANCHE UN MASTER!"
Maurizio Landini non ha neppure il diploma e caga novanta volte in testa al 95 per cento dei laureati con triplo master di questo paese.
Grillo si metta in testa una cosa (che sa benissimo, visto che ha ben evitato l'Università): il più delle volte la cultura, l'intelligenza e l'inventiva stanno fuori dalle accademie, e chi ha un master è solo uno che ha un titolo in più in bacheca: non è un cittadino di serie A+++
Non vorremmo, insomma, che da una prassi dispregiativa verso lo studio e gli acculturati dei banchi di tutta Italia, si oscilli verso l'altro capo del pendolo, fino a considerare meritevoli solo e soltanto i detentori del pezzo di carta.
Ah, un ultimo appunto, Grillo: una laurea triennale e una laurea specialistica, a casa mia (che modestamente è quella della coerenza), fanno UNA laurea.

4P) Grillo dimostra di avere a cuore la presenza delle donne all'interno delle istituzioni. Ha votato, dice, anche una donna che insegna e ha tre figli a carico. Questi sono i vostri sostenitori, donne, non la Gruber ("c'è del maschilismo, molto maschilismo, in Grillo). Aprite gli occhi o vi fotteranno sempre.

4R) Grillo, quando parla delle donne, esonda. "SE LE ELEZIONI SONO LIBERE, LA GENTE VOTA LE DONNE!" E fin qui ci siamo. Non è pensabile che, in un sistema davvero democratico, ci sia una maggioranza così schiacciante di uomini (chiamali uomini). E non è un caso che in Parlamento si debbano immaginare le Biancofiore, le Bernini, o le Santanché, come uniche rappresentanti del sesso forte.
Ma dire "che bello, avremo molte più donne che uomini" non è sintomo di grande lungimiranza; bensì di sessismo, solo vagamente inedito e ritrito in una veste più edulcorata, appetibile per la platea femminile.
Secondo quale principio una donna è meglio di un uomo, in Parlamento? Se un uomo è in gamba ci deve poter andare, se una donna è in gamba ci deve poter andare: punto.
Il resto sono balle - mi si permetta - demagogiche. Ginegogiche. Grillo è un ginegogo.
Anche perché, a ben vedere, è tutto da dimostrare che le donne abbiano una maggior capacità di fare certi passi indietro. A ben vedere direi di no, ma può darsi che mi sbagli io. Lo spero, almeno. Ma fa strano sentire Grillo dirsi "commosso" per la presenza di una componente femminile largamente maggioritaria. Specie se poi si aggiunge: "di donne ma non le sciacquette che vediamo: DI DONNE COI COGLIONI!". Ecco, capiamoci.


Detto questo, e con molte riserve, incrociamo le dita. Ora o mai più.


giovedì 13 dicembre 2012

Democrazia


“Chi pensa che io non sia democratico prende, e va fuori dalle palle.”

Fantastico. Assolutamente fantastico. La mossa più geniale di Grillo da prima della traversata sicula.
Sì perché negli ultimi due giorni è tutto un “aah, che autogol”, “uuuh, dittatore!” – giusto, ma bisognerebbe chiedersi fino a che punto il masochismo popolare possa indurre a perseverare nell’accettazione di un concetto, come quello di Democrazia, saccheggiato e totalmente svuotato da coloro i quali da decenni si propongono come garanti della stessa. Un genio del Novecento scrisse che la differenza tra democrazia e dittatura è che in democrazia prima si vota, e poi si prendono gli ordini; in dittatura non occorre neanche sprecare tempo andando a votare. Personalmente sono sempre stato dello stesso avviso.
Non c'è stato nessun errore. Anzi.
Il video è fenomenale, pensato apposta per essere inserito addirittura in un servizio di qualsiasi tg nazionale (invano, tanto ognuno lascia solo ciò che fa più comodo, come nel caso della Gruber).
Si noti il climax ascendente: prima l’autoelogio, dal voto libero alle tante donne; poi l’ammissione del flop con annesso attacco alla finta democraticità dell’elezione dei parlamentari; poi, la cesura, con la frase storica; infine, la dichiarazione di guerra. Chapeau. Tu chiamalo, se vuoi, Lenin 2.0.
Perché dico Chapeau.
A due mesi dalle elezioni più fuffa della Storia della democrazia rappresentativa globale, il Movimento 5 stelle era a un bivio. Il consenso leggermente in calo; i dissidenti illustri che fioccavano come funghi a redigere puntuale martirologio di se stessi (finiamola, su: erano a fine mandato e, per le regole che coscientemente avevano accettato quando pensavano che il Movimento non potesse sfondare il 5% nazionale, sapevano di non poter incollarsi a una nuova poltroncina, stavolta più mediaticamente ed economicamente appagante, in Parlamento: fine della storia);il ritorno di Berlusconi e la permanenza alla leadership del Pd di Bersani a costituire la più ghiotta delle occasioni: occorreva radicalizzare lo scontro: rischiare il declino, se non addirittura l’implosione – un rischio che valeva la pena di essere corso, poiché con la moderazione in Italia non si vince mai – oppure sfondare il muro del 22, 24 per cento, accaparrandosi ulteriori voti da parte di quei tanti italiani che altro non aspettano se non di essere sedotti da un nuovo maschio alfa sedicente abile a cacciarli fuori dalla merda.
I sondaggi SWG – i più attendibili – dimostrano la già avvenuta risalita nei consensi: c’è da vedere se nei prossimi giorni sfocierà nel volo, o si permuterà in una stasi che non prometterebbe nulla di entusiasmante in vista dei seggi.
Nel primo caso, Grillo e Casaleggio potranno assaltare la Bastiglia.
Non saranno bei giorni, ma saranno giorni nuovi, forse terribili, violenti e incendiari, dalle cui ceneri potrà rinascere, forse, qualcosa.
Nel secondo caso, ci ritroveremo ad annaspare ancora per cinquant’anni con le solite vecchie facce da culo. Ma democratiche.

domenica 9 dicembre 2012

Mah.



Ricapitoliamo. Questo cazzo di spread scende a 290. Io ero rimasto lì, non so voi. Lo spread è a 290. La Repubblica, in un numero storico da collezione, presentava il titolone corredato degli schizzi scannerizzati di Scalfari in effetto seppia.
Ormai doveva per forza andare tutto bene, c’eravamo acchetati. Ancora un anno di tagli, di sanità devastata, di Scuola destituita, e sarebbe tornato tutto più o meno normale, nella placida deriva di una rassegnazione europeista graveolenta come gli schizzi di un novantenne ambizioso su una democrazia ancora in attesa di uno sfogo perlomeno adolescenziale.
C’eravamo quasi abituati, a Monti. Il nonno Monti. Quello che vai a trovare la domenica, dopo la messa, e, ogni tanto, ti cucina qualche piatto buono per farti credere che ti vuol bene mentre lo schifi esattamente come la fica amazzonica della moglie.
Temo che i problemi derivino tutti da qui. Siamo gente infelice, che tromba poco e male, adusa a rifarsi delle proprie frustrazioni su individui e contesti che nulla vi hanno a che fare.
Monti, imbevuto com’è di quella meritocrazia misurabile col righello, in modo semplice, primitivo, lineare come lo smantellamento dello stato sociale perpetrato con i fili che si ingarbugliavano troppo di rado,  somigliava, somiglia, troppo, alla trasposizione di sé che l’italiano medio cova segretamente nell’irrisolvibilità metempsicotica delle doglie genitoriali. Quell’italiano che guarda intriso di spaventata ammirazione il neo-laureato figlio della retorica oscena dell’ultimo spot Enel.
Berlusconi, invece, continua a somigliare all’ologramma che l’italiano medio tende a prefigurarsi nei suoi sogni a suo dire migliori. L’Italiano che vuole scopare, comandare e sentirsi ggiovane anche a novantadue anni, continuerà a votarlo in eterno, reiterandosi in tanti nuovi ggiovani vecchi pronti a porgere terga prematuramente avizzite per esautorare definitivamente la Storia e le sue innumerevoli lezioni mai colte.

C’è un canale nella mia città, che è una gran brutta città. Ci sarebbe anche il mare, ma se ne sta nascosto dietro il comignolo di una centrale a carbone che ogni tanto sputacchia porcherie in giro. Percorrendo il canale, tra anziani bavosi che commentano un culo insolitamente riuscito per quei lidi, sobbalzante in cerca di fisicità impeccabile, si arriva al cantiere navale. Alle cinque, un esercito di operai bengalesi in bicicletta si ritirano nel biasimo generale dopo una giornata china a ingollare frammenti e profluvi di lana di vetro.
E’ un lavoro di merda, mi raccontava Daniel, ma è un lavoro. Lo è all’Ikea, Daniel, lo so, figuriamoci in cantiere.
Mario l’ha perso. A cinquant’anni, una moglie e due figli piccoli, Mario ha perso il lavoro. E’ una brava persona, nella media delle persone mediamente buone. Lavora(va), si fa la sua vita, non rompe i coglioni a nessuno. Due giorni fa, forse tre, è venuto a trovarci a casa. Stavo traducendo Cornelio Nepote (che palle, Nepote). Mario ha iniziato a parlare, non ha più smesso per un’ora.
Il voto a Bersani. Grillo come Hitler. I grillini che minacciano di morte la Salsi, che si sarà pure esposta perché non poteva partecipare alle parlamentarie e si era affezionata alla poltrona, ma non si fa. I grillini sono violenti. Con Bersani non cambia nulla, ma sanno che hanno un’ultima possibilità, poi la gente va giù di forconi. Grillo non ha un programma.
Ha detto una frase, davvero sensata. Una sola.
“State attenti, voi giovani, ché appena ce ne andiamo noi e con noi le pensioni, vi cacciano in mezzo a una strada. Dovete darvi una svegliata. Incazzatevi. Quando saremo morti noi, ce l’avrete durissima. Fate qualcosa.”
Facciamo qualcosa.

sabato 29 settembre 2012

Regalo Iphone 5

A chi dia la motivazione più plausibile della sua esistenza. E della propria.

giovedì 7 giugno 2012

Cotto e sfrangiato

Masterchef Italia è stata una piccola rivelazione. Non pochi i difetti, a partire da quel vezzo particolarmente mesto di cogliere nel modo più gretto, grandefratellesco, le più inveterate bassezze umorali dei protagonisti, dal chiagne e fotte allo sputacchio di fiele nei confronti del lecchino di turno adorato chi da Cracco, chi da Barbieri, chi addirittura da Bastianich; per non parlare dell’innaturalezza palese dei tre giudici, le cui frasi spezzate lette, presumibilmente, da un gobbo predisposto da Paulo Coelho, hanno sovente seminato ilarità. Bei momenti disseminati un po’ ovunque, uno su tutti l’aver portato migliaia di appassionati di alta cucina, spesso dilettanti in tale nobilissima arte in catastrofico disuso – ci metto anche il sottoscritto -, nel tempio di Gualtiero Marchesi, con quei suoi piatti ispirati all’arte pop che se siano buoni quanto commoventi lo sa solo Dio, ma ragazzi: che goduria catodica.

Quello che è affascinante, e al contempo estremamente pericoloso, in Masterchef, è l’aver avvicinato in modo vagamente furbetto, ma riuscito, il dilettantismo talentuoso dei concorrenti alla spocchia pluristellata di Cracco e Barbieri. E forse “affascinante” è dire poco, sarebbe forse meglio parlare di una dirompente, eversiva  boccata d’aria fresca, tale da sfaldare l’insipido muro dei seriosi della forchetta: di quelli che assaggiano un piatto un po’ strano, con abbinamenti fra noci caramellate e riduzione di patate viola con pene di piccione a mo’ di banderuola, e fanno la faccia dell’intellettuale che finge benissimo di non annoiarsi mentre legge Sartre, terminando l’assaggio con il folgorante evergreen salvagente per quando non si ha nulla da dire: “interessante”.
Il collegamento sorge lampante col mondo del vino. Dacché la tesi necessariamente infondata di quanto sèguito a scrivere è che gli chef, dopo l’investitura mediatica a nuovi guru inavvicinabili al normo-palato di massa, abbiano preso il posto un tempo occupato dai sommelier. Quelli che ancora oggi, appena appena minati nella loro tronfiezza, perseverano sbrodolosi a buttare lì sentori di “chiodi di garofano” e “merde de poule”, “pan-briochato” i più terra-terra. Lo strepitoso mostro partorito dalle farneticazioni olfattive dei suddetti era stato Antonio Albanese, che dopo infinite inalazioni iperboliche partoriva un verdetto apodittico: “E’ rosso”.
Il pericolo, si era detto. Il pericolo è che questo format, capace di amalgamare sacro e profano gastronomico, possa legittimare, stavolta senza il benché minimo sorriso, quell’archetipo di mediocrità incorporato da Benedetta Parodi. Che è per gli chef ciò che Antonio Albanese è stato per i sommelier, al netto della vis comica.
Benedetta Parodi assolve dai loro peccati le pasionarie del Mc Donald’s con prole al seguito, delle pizze Regina cotte al microonde, con l’acqua che elimina l’acqua ad accompagnare; ci dice che tutti hanno diritto a mangiare ogni santo giorno cose elaboratissime pur senza avere il tempo di farle per bene: non importa preparare un brodo di verdure se ci sono i dadi col glutammato; il risotto coi funghi lo si può fare benissimo con i funghi surgelati, magari già cotti, si sa, son secondi che sfuggono; signoreggia e soverchia la pasta pronta e ricolma di porcherie.

Una questione di velocità, di comodità, la vita non s’arresta un’ora. La battaglia è già compromessa, la guerra finita. Da tempo. Lo si è visto da Fazio, la Parodi a confronto con Cracco: lui fighetto, lievemente altezzoso, sensato, a parlare di “cultura del cibo”, di meno quantità e più qualità; lei indesiderabile, sciatta, a sciorinare la solita solfa della donna che tra figli e lavoro non ha il tempo di fare il brodo con le verdure, e allora è costretta ad acquistare le più invereconde schifezze pronte sugli scaffali degli ipermercati, propalando la schiccheria sottesa per cui un sano e meraviglioso spaghetto aglio e olio non si può fare, giacché è indecoroso. Cercatelo, quel filmato, in cui Cracco perde sonoramente massacrato dagli uppercut della mistress di casa Caressa. Con la beffa, a ogni pugno incassato, di sentirsi dire “Sì, lo so che hai ragione, però…”. Però.
In quell’epifania infantile sovviene, parafrasando Camus, il germe dell’apocalisse che sarà, dove pochi eletti seguiteranno a cibarsi dispendiosamente come da diktat cracchiano, mentre tutti gli altri periranno nel marcio markettato del pressapochismo di stampo parodiano.

Ma la colpa è nostra. Di noi uomini, si intende. Le donne si sono emancipate, sono felici, paiono non avvertire più il desiderio di spendere il loro tempo in qualcosa di davvero prezioso come la preparazione di una magia conviviale irripetibile. Vanno capite, sono impegnate e in carriera, hanno voglia di riscatto e non c’è di che ironizzare. Ci sono le riunioni, le promozioni, i successi. Tutte cose che si pensava potessero stimolare solo la serotonina maschile. Forse eravamo tutti in errore. Forse sarebbe il caso, quindi, per una volta, di prendere in seria considerazione l’idea di assumere il ruolo un tempo appartenuto alla donna: restare a casa, ad accudire i figli, educandoli alle cose belle. Alle cose buone. E’ sufficiente mettere da parte qualche retaggio millenario, ma gli uomini sono forti. Possono farcela. Si impegnino, e stiano loro tra quattro mura amiche e rassicuranti, a dividersi tra il basket di Fabio e il saggio di danza di Sara, a passare ore davanti ai fornelli sognando isole tropicali infestate da formidabili veneri nere. Fermare l’apocalisse si può.

giovedì 10 maggio 2012

Sarà una bella società


Selvaggia Lucarelli, bella e genialoide twitter-guru con un seguito di 78.000 followers, alcuni giorni fa si è così espressa sul proprio account Twitter: “Dietro l'addio di certi Vip su twitter (Fiorello &co), c'è un fatto banale: Twitter li ha pagati per lanciare Twitter e poi non ha rinnovato il contratto.”. Ingenuamente schifata la replica di un segugio della Lucarelli: “se fosse vera questa notizia sarebbero SQUALLIDI!”. Ma la blogger redarguisce alla vecchia maniera: “perché squallidi?Twitter è un’azienda, mica un ente benefico, e se vuole testimonial li paga.”. Oh, là. Finalmente qualcuno, fra gli dei del Monte Twitter, si è caricato sulle spalle il fardello, assai gravoso, di riassestare illusioni patetiche: ovvero che dietro l’attiva partecipazione di taluni V.I.P. sui due maggiori (un)social network della Rete potesse celarsi il desiderio di sviluppare un rapporto diretto, persino intimo, con i rispettivi fans. A smuovere tali V.I.P. grandi come coriandoli sarebbe stata invece la solita, infinita dose del più abietto e immotivato narcisismo, ma soprattutto una quantità, al momento incalcolabile, di denaro sonante. Rivelazione sconcertante e inattesa, ne converrete tutti.
La Lucarelli, da persona intelligente qual è, ha utilizzato una parola precisa, fondamentale per comprendere le dinamiche regolatrici delle piattaforme sociali (invero molto piatte e poco sociali, come certe insopportabili babbione): “azienda”. Se vi siete mai chiesti per quale motivo Facebook e Twitter siano gratuiti e sempre lo saranno, o da dove provengano i miliardi atti a rendere Mark Zuckerberg il trentacinquesimo uomo più ricco della Terra secondo Forbes, siete entità raziocinanti e vi sarete di certo dati, marzullianamente, una risposta. Che è tanto semplice quanto grottesca: tutti coloro che decidono di servirsi regolarmente di Twitter e Facebook, non importa se smodatamente o con un minimo di buon senso, sono null’altro che lavoratori dipendenti, inconsapevoli e non retribuiti dei dominatori del Mondo; dei grandi marchi, degli stilisti indebitati fino al midollo, delle banche d’affari che fanno crollare paesi come la Grecia, insomma, dei signori del mercato globale, post-capitalista e nichilista. Il meccanismo è banalissimo. Esempio: Mick Jagger posta sul profilo Twitter una foto in cui indossa la nuova maglietta di una certa azienda d’abbigliamento: il giorno dopo, quella stessa azienda, proprio di quella maglietta venderà cinque milioni di esemplari. Senza sforzo né dolo, e con il solo Jagger a libro paga. Intuizione luciferina, sulla quale oggi, e purtroppo non è una battuta, si reggono le sorti del nostro pianeta, globalizzato e no.

Le ragioni di tale deriva dei social network, votati ora unicamente al marketing, andrebbero ricercate scavando nell’ontologia dei social, delle community e dello stesso Internet. Compito da intellettuali, se solo gli intellettuali di pregio ancora in vita non fossero troppo distanti o troppo irresponsabilmente coinvolti dalle meraviglie del Web, nonché collusi con le sue nefandezze. C’è poi chi si compiace di essere fuori tempo, alimentando inutile tecnofobia che va solo a vantaggio dei padroni. Poco tempo fa, disteso sulla sua amaca, attingendo un Long Island presumibilmente da uno chiccoso bicchiere a forma di Lenin con tanto di baffi, Michele Serra, ridestatosi dal torpore pomeridiano al grido de “la rivoluzione non dorme mai!”, tuonò dalle pagine di Repubblica: “Twitter mi fa schifo”. Seguirono appoggi  e contestazioni tecnofile da tutte le parti, alle quali Serra rispose con una lieve rettifica in cui motivava la tautologia di cui sopra avanzando da un fatto tecnico: i 140 caratteri di Twitter, secondo lui, sarebbero troppo pochi per esprimere decentemente pensieri complessi o addirittura compiuti. Ahinoi, non è nel numero di caratteri disponibili, il problema. Anzi, a dirla tutta, è proprio nella scarsità di spazio a disposizione che emerge il lato più oggettivamente intrigante di Twitter: il suo essere per molti versi una palestra di scrittura, dove condensare, smussare, asciugare al massimo, un aforisma o una battuta satirica; implementandone addirittura la portata comica, come nel caso di questo brillante twit di un noto e talentuoso blogger, QdG, che il 5 marzo 2012, dopo le primarie del centrosinistra a Palermo, scrive 75 caratteri di puro genio : “la sconfitta della Borsellino dimostra che Bersani indigna più del tritolo.

Il problema è altrove. Magari, per cominciare, nel nome e nel ruolo conferito agli iscritti dei due portali. Gli utenti Facebook si scambiano l’amicizia (si fa per dire); quelli di Twitter diventano followers, ovvero, letteralmente, seguaci di qualcun altro, che nove volte su dieci è un V.I.P. Impossibile non intravedere già in tali premesse una sottomissione del popolo di Twitter alla dittatura delle celebrità, dei loro silenzi, della loro spocchiosa indifferenza che, per le leggi immutabili dell’idiozia umana, li rendono ancor più desiderabili agli occhi della plebe. Di questa moltitudine Facebook e Twitter veicolano, seppur in forme vagamente differenti, le stesse, flebili manifestazioni: indignazioni, speranze, gusti cultural-musical-politici, aneliti malcelati alle più sfrenate e disinibite soddisfazioni sessuali; in una guerra planetaria a chi è più anticonformista e scandaloso, e quindi più conforme, innocuo e asservibile. Se tuttavia è vero, come è vero, che Twitter avanza inarrestabile verso il trono dei social network, ci sarà di che rimpiangere il dominio di Facebook, non-luogo che quantomeno si proponeva di allargare i cerchi relazionali abbracciando in una finta fratellanza individui sconosciuti sì, ma parigrado. Twitter, invece, sin dall’inizio si è imposto poggiando efficacia e consensi sulla più arcaica e schiavistica delle strutture piramidali, dove in cima, sui loro scranni celesti, stanno i V.I.P., quasi tutti tanto privi di talento quanto strapagati, mentre alla base milioni di followers adulano e carezzano, mai corrisposti, l’idolo di turno, sempre intento a trastullarsi in onanismi egoriferirti: Alessandro Baricco che scrive in spagnolo giacché l’italiano fa poco figo; Fabio Volo mugugnante la sua ansia prima del flop in tivù o in radio (dove ammonirà i followers scandendo “non rompetemi le palle”); Alfano e Casini prodighi di bacetti pre- e post-inciucio elettorale dai relativi profili-sputacchiera. Questa è la cifra di Twitter: il pettegolezzo, il voyeurismo, la fatuità suprema, estrema e insostenibile. Caratteristiche preoccupanti e decisamente da esecrare per aver tradito quell’ideale di socialità e coesione fra individui uguali che è, o dovrebbe essere, teoricamente sotteso ad ogni social network; un tradimento attuato ingigantendo fra gli utenti la già fallace percezione di un’intimità inesistente con gallinelle appollaiate su vertici irraggiungibili, e al contempo abbattendo ogni reale spiraglio possibile di dialogo, solidarietà e democrazia. Il problema ultimo è quindi la degenerazione di questo cortocircuito tremendo, che va immediatamente risolto. Ma come?

Ennio Flaiano, nella Filosofia del rifiuto contenuta nel suo Diario degli errori, ci risponderebbe che è preferibile dire No a tutto ciò che può ritorcersi contro di noi: anche a Twitter; per quanto lui stesso, forse, sarebbe stato un formidabile twitter-guru, non meno di Oscar Wilde o Gesualdo Bufalino. In ultima analisi bastererebbe, nei confronti di questi V.I.P. che a uno a uno molleranno Twitter, compiere un’ultimo balzo conformista e idolatrante da strenui seguaci dei loro cinguettii: emulare dapprima i Fiorello, e poi quelli che inevitabilmente seguiranno (come l’irrinunciabile Michelle Hunziker), nell’abbandono del social network più fascistoide mai concepito; nel ripiego sereno verso l’incasinato eremo quotidiano; nel ritorno esclusivo alla realtà vera, eccitante e crudele, mortale e salvifica, dove guardarsi finalmente negli occhi, tutti insieme su questa misera barca, mentre prendiamo acqua da tutte le parti. Per costruire la nostra zattera di pietra. Prima che sia troppo tardi.

lunedì 9 aprile 2012

Un articolo straordinario


    
Hans M. Enzensberger

"Un uomo lungimirante, questo Eric Blair, meglio noto con lo pseudonimo di George Orwell. Uno che di regimi totalitari se ne intendeva, assai prima che il termine entrasse a far parte del lessico degli storici. Uno che nel 1943, quando Stalin, Churchill e Roosevelt si incontravano a Teheran, già vedeva profilarsi l'antagonismo tra le superpotenze e la guerra fredda.
Qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale Orwell pubblicò il suo più celebre romanzo, 1984. Il futuro che vedeva all'orizzonte non gli piaceva. Dipinse il panorama infernale di un regno del terrore nel bel mezzo dell'Europa, che in un futuro non lontano avrebbe perfezionato i metodi di Stalin e di Hitler: un partito unico ai comandi di un "Grande Fratello"; una "neolingua" ideata per capovolgere il significato delle parole; l'abolizione della sfera privata; un regime di sorveglianza a 360 gradi, rieducazione e lavaggio del cervello dell'intera popolazione, e infine un'onnipotente polizia segreta per soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione, con la tortura, i campi di concentramento e l'assassinio.

Fortunatamente quella profezia non si è avverata, almeno per quanto attiene alla nostra parte del globo: con essa George Orwell ha ingannato sia noi che se stesso. Ma non avrebbe immaginato neppure in sogno che per ottenere almeno in parte quel risultato - e in particolare un sistema di sorveglianza a tutto campo - non c'era bisogno di una dittatura. Si poteva raggiungerlo anche all'interno di un sistema democratico, senza l'uso della violenza, con metodi civili, se non addirittura pacifisti. Più di quattro secoli fa un giovane francese, Etienne de la Boétie, aveva già incominciato a riflettere su questo tema: nel suo Discorso sulla servitù volontaria, non pago di mettere alla berlina i despoti assoluti del suo tempo, l'autore si rivolgeva soprattutto alle coscienze di chi si adattava alla tirannide: «Sono gli stessi popoli - scriveva - a subire questa piaga, o anzi a farsi male da sé; se solo cessassero di sottomettersi alla servitù, sarebbero liberi. Il popolo si assoggetta, accondiscende alla sua miseria, o addirittura la insegue... Non crediate che un uccello si lasci impaniare, né che un pesce abbocchi all'amo con più facilità di un popolo pronto a farsi allettare dalla servitù, per poco che gli si spalmi un po' di miele in bocca».

Di fatto però, già da tempo non abbiamo più a che fare con la figura del monarca unico, personalmente identificabile e attaccabile, contro cui insorgeva Etienne de la Boétie. E neppure subiamo, come nel libro di Orwell, la tirannia di un Grande Fratello, ma piuttosto il dominio di un sistema simile a quello descritto da Max Weber negli anni Venti del secolo scorso. «L'organizzazione burocratica, con le sue professionalità e specializzazioni, la separazione delle competenze, i regolamenti e i rapporti d'obbedienza in base a una scala gerarchica, sta portando avanti, di concerto con la morta macchina, l'edificazione della struttura, di quel futuro assoggettamento, nel quale forse un giorno gli uomini saranno costretti a inserirsi nella più totale impotenza, come i fellah dell'antico Stato egizio, se per essi l'unico e ultimo valore in base al quale si decida la natura e l'amministrazione dei loro affari sarà un buon sistema - buono e razionale in senso puramente burocratico - di tutela, rifornimento e gestione. Perché in questo la burocrazia è incomparabilmente più efficiente di qualsiasi altra struttura di dominio». Nelle sue previsioni, quella struttura di assoggettamento sarebbe stata «dura come l'acciaio»: ma per quanto chiaroveggente, in questo almeno Max Weber si era sbagliato, dato che nel frattempo la gattabuia si è trasformata in un abitacolo relativamente confortevole, qualcosa come una cella spaziosa ed elastica, dalle pareti di gomma. I nostri sorveglianti arrivano a passi felpati, cercando, per quanto possibile, di conseguire i loro principali obiettivi strategici - sorveglianza a tutto campo e abolizione della sfera privata - senza far rumore. Ricorrono al manganello solo quando proprio non c'è altro da fare. Preferiscono rimanere anonimi; non portano uniformi ma abiti civili; si fanno chiamare manager o commissari, e non operano più in caserme, bensì in uffici con l'aria condizionata.
Nell'espletamento dei loro compiti hanno modi amabili e cordiali. Ai residenti garantiscono la sicurezza, l'assistenza, il comfort e i consumi. Perciò possono contare sulla tacita approvazione degli abitanti, e non dubitano che i loro protetti premeranno con zelo un pulsante invisibile con la scritta «mi piace». Anche su un altro punto l'analisi di Weber appare oggi anacronistica: la sua disarmante fiducia nella forza e capacità d'azione dello Stato. Se a noi questa fiducia viene meno, non è solo perché gli Stati sono incalzati, braccati dai mercati finanziari globali, ma anche perché oggi né Berlino, né Bruxelles e neppure Washington sarebbero in grado di garantire da soli il controllo totale della popolazione; e ciò semplicemente perché i loro funzionari sono troppo sprovveduti e maldestri. Oltre tutto, non riescono neppure a stare al passo con i progressi della tecnologia. Perciò le autorità dipendono dal "mondo economico", cioè dalle corporation dell'informatica.
Solo se le due parti procedono fianco a fianco - i governi da un lato, e dall'altro imprese come Google, Microsoft, Apple, Amazon o Facebook - la presa a tenaglia sulle libertà dei cittadini raggiunge il massimo dell'efficacia. È comunque chiaro che in questa fragile alleanza, il ruolo delle istanze politiche è quello del partner più debole, dato che solo le corporation dispongono delle competenze indispensabili, del capitale e della necessaria manovalanza: informatici, ingegneri, programmatori di software, hacker, matematici e crittografi.

Nel Ventesimo secolo, né la Gestapo, né il Kgb o la Stasi avrebbero neppure lontanamente immaginato i mezzi tecnologici oggi a disposizione: le onnipresenti telecamere di sorveglianza, il controllo automatizzato dei telefoni e della posta elettronica, le immagini satellitari ad alta definizione, i profili di movimento superdettagliati, i sistemi di riconoscimento biometrico del volto; programmi gestiti grazie a stupefacenti algoritmi, memorizzati in banche dati di sconfinata capienza. L'ultimo accenno di reazione, ormai quasi dimenticato, contro lo zelo delle autorità tedesche e delle megaimprese risale al lontano 1983 - un anno prima della data che ha fornito il titolo al romanzo di Orwell.
Un censimento relativamente innocuo suscitò allora un certo allarme, e le denunce di molti cittadini furono accolte dalla Corte costituzionale. Non solo i giudici di Karlsruhe condannarono l'iniziativa del governo, ma istituirono una nuova legge costituzionale sull'"autodeterminazione informatica", a tutela della personalità.
Una sentenza che oggi appare ingenua: di fatto, nessuno ne ha mai tenuto conto. Nella cyberguerra contro la popolazione i sostenitori della riservatezza dei dati sono impotenti, e da tempo hanno gettato la spugna. Su un punto invece - quello dell'evoluzione linguistica - George Orwell ha colto nel segno: la "neolingua" da lui descritta è assurta ormai al rango di gergo ufficiale della sociologia. La Costituzione non piace ai cosiddetti servizi. Distinguerli dai criminali informatici è tutt'altro che facile. Le nuove tessere sanitarie di fatto altro non sono che una card elettronica di censimento delle malattie, facilmente decriptabile da un qualsiasi hacker.
E quanto ai social network, fanno leva sull'esibizionismo dei loro utenti per sfruttarli senza pietà. Un ultimo, molesto residuo di sfera privata è il contante. È dunque logico che lo Stato, di concerto con le corporation, metta in campo un impegno coerente per abolirlo, mediante la proliferazione di carte di credito, client card e altri sistemi di pagamento (tramite telefonia e chip) di prossima introduzione.

L'obiettivo non potrebbe essere più chiaro: esercitare una sorveglianza capillare sulla totalità delle transazioni. A ciò sono interessati, oltre al fisco, i network asociali, il commercio online, gli istituti di credito, la pubblicità e la polizia. Un altro effetto sarà quello di cancellare persino il ricordo della materialità del denaro, ridotto a una serie di dati manipolabili a piacimento. Al solo scopo di completare il quadro daremo infine uno sguardo a un settore collaterale, segnalando i tentativi in atto di abolire i diritti d'autore. Il copyright è una conquista recente, che risale al Diciannovesimo secolo. Fino a quel momento, la lettura di libri era un privilegio riservato a una piccola minoranza.
All'improvviso, il romanzo divenne un prodotto di massa. Gli scrittori si resero conto che grazie ai diritti sulle tiraturee sulle traduzioni, la letteratura poteva essere fonte di guadagni sostanziosi. Purtroppo non hanno avuto molto tempo per stare allegri. Il libro stampato, oggi denominato print, è diventato un modello di fine serie per le maggiori case editrici. Le quali considerano ormai il copyright come un ostacolo, con grande giubilo delle avanguardie digitali. Per questi allegri pirati, l'obbligo di pagare un prezzo per ciò che l'industria informatica definisce content è comunque assurdo. D'ora in poi gli autori, come venivano chiamati, dovranno rassegnarsi a lavorare gratis; in compenso potranno twittare, chattare e bloggare a piacimento.
Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che ormai il tempo di decadimento delle tecniche a nostra disposizione varia da tre a cinque anni - lo stesso ritmo dei cicli economici dei grandi gruppi informatici. Mentre un testo su pergamena o carta deacidificata rimane perfettamente leggibile a distanza di cinque secoli o anche di un millennio, i media elettronici devono essere riversati con una certa frequenza per non diventare inservibili dopo soli dieci o vent'anni: un dato che ovviamente collima con lo spirito dei loro inventori.

L'abolizione del libro stampato non è peraltro un'idea nuova. Fu preannunciata nel lontano 1953 da Ray Bradbury, nel suo bestseller (!) Fahrenheit 451, che ne descrive gli sviluppi fino alle estreme conseguenze. In quel racconto utopistico, il possesso di un libro è considerato un crimine e punito con la pena di morte. Nelle loro visioni del futuro i grandi pessimisti tendono a esagerare; ma il fatto di essere confutabili depone in loro favore, e non contro di loro. Ciò è vero sia nel caso di Bradbury e Orwell che in quello di Max Weber. Ovviamente, per saperne di più col senno di poi non c'è bisogno di essere un genio.
A fronte dei pronostici più tetri sorge una domanda, inevitabile come l'amen in chiesa: possibile che non ci sia qualche elemento positivo? La risposta è facile, visto e di grande soddisfazione: tutto ciò che è sopravvenuto grazie alla nostra volontaria servitù non ha richiesto spargimenti di sangue. I «residui del passato» non sono stati liquidati, come Lenin cercò di fare in Russia, ma continuano a esistere.
E ciò per un motivo evidente: la tolleranza dei nostri sorveglianti si basa su un semplice calcolo costibenefici. Sarebbe troppo dispendioso tentare di stanare gli ultimi refrattari, di sopprimere una piccola minoranza caparbia, che per puro e semplice puntiglio si oppone al fato digitale. Ecco perché ci si accontenta di una sorveglianza al 95 per cento. Dunque, non è il caso di farci prendere dal panico: anche perché il restante 5 per cento equivale pur sempre a quattro milioni di persone. E così anche in futuro, chi proprio non potrà farne a meno, potrà continuare a mangiare e bere, amare e odiare, dormire e leggere analogicamente senza preoccuparsi più di tanto, e restare relativamente inosservato.

martedì 3 aprile 2012

Tre volte all'alba

Lui vende bilance, dorme da 16 anni in quella camera d'albergo, e questa notte sarà l'ultima; lei è una bella quarantenne, è pazza e non vive con l'uomo che ama.
Lui è il portiere di notte dell'albergo, una volta ha ucciso un uomo e si è fatto tredici anni di galera; lei ha 16 anni ed è incinta.
Malcolm ha 13 anni, ha appena visto un incendio divorargli la casa e i genitori; Mary Jo è un detective, fra tre giorni andrà in pensione e il suo ultimo compito vuole farlo per bene.
Tre volte all'alba è un intreccio riuscito e impossibile di assenze temporali. Per una di quelle licenze che i libri concedono, Malcolm e Mary Jo si incontrano per la prima e l'ultima volta in tre momenti uguali e diversi delle loro vite. Ogni volta, insieme, troveranno salvezza alle prime luci del mattino.
Storie alla Baricco, insomma. Partorite da un talento narrativo e affabulatorio incontestabile che, signori, mettevelo in testa, direbbe Berselli, da vent'anni non fa "Letteratura di serie B", per dirla alla Pietro Citati, ma "Fiction di serie A".


Molti ricorderanno le diatribe seguite all’uscita del romanzo Questa storia, elegantemente stroncato da Michele Serra con perifrasi magistrali quanto bastonato con sadismo sublime da Citati, il quale si disse disposto a pagare ben volentieri un prezzo altissimo, pur di gustare dei “veri pomodori”, ma non era il caso del Divino Alessandro. Probabile. Baricco non sarà un vero pomodoro, ma nemmeno ambisce ad esserlo: per comodità, in tanti evitano di ricordare quella volta in cui, con rara onestà, dichiarò: “dei miei libri non resterà niente”. L’ha detto, e ciò basti ad assolverlo dai suoi peccatucci di romanziere in fondo frivolo, dalla superficialità insondabile, incapace di prestarsi a seconde letture. Ci sarebbe poi il fatto che Baricco è troppo cool, si mette a fare del cinema sulla Nona Sinfonia, parla di barbari passando da Beethoven a Google, da McEnroe ai vini di Robert Parker con dimestichezza e un’altrettanta, eccessiva agilità; poi vende troppo, per essere considerato un venerato maestro, e quindi guadagna anche troppo, laddove tutti sappiamo che il genio dev’essere necessariamente cencioso ed emarginato, da celebrarsi rigorosamente postumo.


Inappuntabile, applausi, ma sarebbe ingiusto, se non addirittura scorretto, negarne il talento palese e a tratti fulminante.
Innazitutto Baricco si ama o si odia, e sempre per i motivi sbagliati. Lo adorano per le storielle inverosimili, la prosa scorrevolissima, le stramberie dei personaggi come Plasson, pittore che dipinge il mare con l’acqua di mare dando perciò i brividi, e altre fregnacce simili. Di contro lo si disprezza per le idee campate in aria, la prosa soggetto-verbo-punto, la prolissità compiaciuta, la prepotenza del suo “Io in posa”, come lo definì Daniele Luttazzi, per non parlare degli a capo e i corsivi fini a se stessi se non a un’estetica che nelle intenzioni dovrebbe racchiudere la verità baricchiana ultima e indivisibile: io sono, voi non siete.
Si è sempre avvertita, palpabile, nella sua produzione, l’idiosincrasia per le masse da ammaliare a suon di best-sellers e soggiogare col complesso di inferiorità nei confronti di una letteratura alta, la sua, che non è alta e non è neppure letteratura, ma che riesce sempre a convincere tutti di essere l’una e l’altra. Clamorosamente.


Tre volte all’alba racchiude, rielaborandolo nella digestione, tutto il Baricco precedente, rivelandone un’insperata nuova linfa dopo le deprimenti debacle di Emmaus e Mr. Gwyn. Quest’ultimo ci mostrava un Baricco inedito, più esile e senza svolazzi troppo irritanti, attento a non cadere in voragini terribili ma, putroppo, parimenti privo dei picchi straordinari di altri suoi libri, tanto traballanti e annichiliti quanto coerentemente irrisolti: era ormai un Baricco senza Baricco, intristito e inutile, la cui creatura più prescindibile, Jesper Gwyn, accennava a un’opera di uno scrittore fittizio, dal titolo (appunto) di Tre volte all’alba. Un’eco suggestiva che da pozzanghera si è fatta mare, obbligando l’autore a tuffarcisi per riemegerne, pochi mesi dopo, con questo libriccino di novanta pagine che, udite udite, sono quanto di meglio abbia scritto Baricco dai tempi di Novecento: non così geniale e memorabile, e con appena un paio di perle, ma come questo maturo, essenziale, compiuto.
E pazienza se le tre ore di lettura godereccia trascoloreranno in fretta nel ricordo, come capita ai piaceri effimeri nel lenire il mal di vivere quotidiano. Piccole allegrie di ieri, che domani sono già finite.