martedì 28 febbraio 2012

The wind that shakes the barley

Rodersi, rassegnarsi, rincoglionirsi: se esistono altri motivi per avallare il governo Monti, chiedo scusa, io non ne vedo. Riprendo, non a caso e parafrasandolo, l’incipit di uno storico articolo di Giorgio Bocca su Vigevano, risalente al 14 gennaio 1962; Vigevano all’epoca uno degli emblemi del “boom economico” sulla cui mortifera assimilazione poggia gran parte delle odierne catastrofi, ma verso il quale, ai tempi, soffocati dalle multiorgasmiche grida del popolo, sporadici e irrisi furono i pensieri critici, urticanti e ferocemente contrari di devastanti profeti . 
Erano quattro cani, come nella canzone di De Gregori: Bocca, Pasolini, Gaber e Luporini. Loro e basta, più o meno e a giudicare da quanto ci hanno lasciato. Dal sigillo di Bocca sul modello economico imperante, genialmente fotografato nell’incipit di cui sopra (“fare soldi, per fare soldi, per fare soldi”); alla proliferazione dei piccolo borghesi che, cantava Gaber in “Quando è moda è moda”, offrivano champagne per fare i generosi; fino a una delle chicche pasoliniane: la mutazione antropologica di un intero paese che, misero e retrogrado, si era improvvisamente ritrovato ricco, sfavillante e fuori di testa come una famiglia contadina di colpo divenuta miliardaria, prima timorata di Dio e ora schiava della Dittatura del Mercato.
Ho appreso del pezzo di Bocca – lo dico onde non apparire un mero paninaro - grazie a un altro grandissimo che se n’è andato da un po’ e bisognerà riscoprire, Edmondo Berselli. Bene. Ora, presente anche lui all’appello, veniamo al dunque: cosa avrebbero detto, in questi giorni, i Bocca, i Gaber e i Luporini, i Pasolini e i Berselli? E soprattutto: la mia è una domanda pertinente, o il tarlo di uno che ha tanto tempo e pure il lusso di sprecarlo?
In troppi, sembra ieri, scendevano nelle piazze a inebriarsi come dinnanzi a inattese porte celesti grondanti speme sui cardini della Libertà. Usciva di scena un farabutto, un buffone tetro e inaccettabile, un rifiuto umano d’ineguagliabile successo, capace di rappresentare al meglio il peggio (anzi, la normalità: Montanelli era ottimista) degli italiani: saliva quindi sul proscenio Mario Monti, suggerito al Re Napolitano dall’illustre predecessore (GOAT fra gli italici governanti). Al che, nel trovarsi di fronte un barone plurilaureato, occhialuto, senza alopecia e con mono-passera al seguito da quarant’anni, il popolo italiano -arcinoto per arguzia e scaltrezza- non ha potuto far altro che volare in alto, sbrodolando sogni di rock ’n’ roll e Democrazia. “Finalmente uno che ne sa, rispettabile e intoccabile; un orsetto dolce, dotto e canuto!” - sempre logico e lungimirante, l’italiano medio. Poi vennero le lacrime perfettamente calibrate della Fornero: “si vede che è una donna, che ha cuore, che ha letto Erica Jong: finalmente un palliativo femminista più efficace delle solite quote rosa!!”. Lacrime utili ad annacquare gli orrori sui quali i nostri tecnici, da quella indimenticabile e riecheggiante conferenza-stampa, stanno alacremente operando.

Si parla sempre, da anni, delle leccate di Emilio Fede al fu signor B. (di cui restano fulgida testimonianza i minuti iniziali di Aprile di Nanni Moretti). Ma in fondo quella era robetta facile da decrittare: ci sarebbe arrivato qualsiasi idiota (non italiano), all’agnizione della disfatta incombente su di un paese irredimibile financo da Padre Maronno. 
Una disfatta che, per quanto manifesta e perpetrata allo scoperto, venne preannunciata dalla solita mezza dozzina di anti-italiani, da Bocca a Montanelli, da Moretti a Luttazzi, e ancora e sempre da Luporini e Gaber, la cui compagna tifava spasmodicamente e incredibilmente per B. (“mia moglie crede che Berlusconi possa risolvere i problemi del paese: io NO”). Una disfatta che, nonostante residui di epiche epoche passate non mancassero di persistere, -si pensi al Caimano di Moretti o  alla relativamente recente invocazione di un golpe di Alberto Asor Rosa- , ha permesso alla metastasi berlusconiana di attecchire per  17 tremendi e interminabili anni, prima che non Noi, non il popolo bue, e bensì l’Europa al cui guinzaglio agonizziamo, decidesse di destituire il ducetto e indurlo a dignitosissime dimissioni alla facciaccia nostra.
Ora è accaduto di peggio. La iattura inattesa è giunta e in pochissimi se ne avvedono: non solo non è cambiato nulla, ma la vera barbarie di questo nuovo regime totalitario deve ancora palesarsi e, soprattutto, manca un ingrediente fondamentale per la Resistenza: l’intellettuale, possibilmente geniale, capace di scritti corsari folgoranti e disumani. 
Di qui un altro problema, ovvero l’assenza di un giornalismo vero che non sia schifosamente connivente: l’armata di Scalfari & Serra si concede senza se e senza ma, appoggiando a prescindere Monti così come il peggior partito d’opposizione di tutti i tempi (e Scalfari, uno che saprebbe ancora essere un maestro, ha addirittura denigrato le lagne plebee per l’indifferenza oligarchica riservata ai referendum); sul Corriere della Sera, specie alla luce dell’acquisizione spagnola e lo spadroneggiare spavaldo dei Battista e i Polito, sorvoliamo amabilmente; La Stampa non esiste; i giornali di B. preparano (male) il terreno al futuro Presidente del Consiglio. Rimane il Fatto Quotidiano, il quale pure ha mollato un po’ la presa negli ultimi tempi: nonostante alla vista di sponsorizzazioni Unicredit venga da pensare, il meglio dell’intelletto in direzione ostinata e contraria viene da lì: Travaglio, Massimo Fini, Malcom Pagani, Flores d’Arcais e, ogni tanto, Andrea Scanzi. 
Qualcuno quindi c’è, si dirà. E allora cosa manca, per aprire tutti gli occhi sulla gravità di questo sconcertante futuro e indignarci davvero (senza sbobinare peti su facebook)? Risposta ovvia: manchiamo noi; il nostro interesse ad approfondire le cose e a impegnarci, a studiare davvero e non per ingranare CFU irridenti, ad ascoltare senza dover per forza dar aria alla bocca. Manca un’idea di impegno, a cui negli anni siamo stati disabituati a puntino per mezzo di riforme volte a divellere dalle fondamenta la Scuola di un tempo, troppo seria e quindi fascista. Manca, soprattutto, la consapevolezza di non avere niente da perdere: né il presente, né tantomeno un futuro.
Ve lo ricordate Gramsci, no? Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Ecco, qui si deve scegliere: o rassegnarci e tacere per sempre, o essere onesti e ammettere che nessun futuro radioso meriterebbe la nostra lugubre sottomissione, figurariamoci questo. Bisogna quindi ribellarsi sul serio, essere disposti ad arrivare fino in fondo come Milton, come Johnny, o come il protagonista di “The wind that shakes the barley”  di Ken Loach, il medico-partigiano Damien, granitico e irriducibile nel disprezzare la fittizia libertà concessa all’Irlanda dal Trattato Anglo-Irlandese del 1921 e per questo fucilato da suo fratello, finto buono come ce ne sono tanti, convinto sostenitore del presunto meno-peggio incarnato da una pace inedita e cruentissima nella sua celata, inafferrabile e soverchiante violenza. Il film si chiude così, con la fucilazione dell’eroe e la vittoria dei repubblicani (alla Michele Serra). La tristezza regna sovrana e quell’ultimo sacrificio parrebbe davvero inutile, non fosse ancora viva e vegeta l’utopia sottesa a quel viaggio al termine della notte.
Banale, mi si dirà, ameno e inconcludente. Ancora a parlare di utopie condivise, sii icastico. Proponi una soluzione. Io, da minorato mentale, una risposta credo di averla, ed è, anch’essa, tanto ovvia quanto irrealizzabile poiché richiede impegno e dedizione totale: il Boicottaggio. Di ogni singola forma mediatica, politica, socio-economico-istituzionale che da anni ci tiene per i capelli e sta rapidamente insinuandosi in zone ben più dolorose. Significa non comprare più i giornali di cui sopra; significa gettare il televisore dalla finestra come quell’interista entrato negli annali; significa smetterla di vestirsi, mangiare, “vivere” in un certo modo, ingombrando a dismisura il conto in banca di Zuckerberg e svuotando la Strada. Gaber cantava: “c’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza – bisogna ritornare nella strada per conoscere chi siamo”. Capiamole, queste due cose, e avremo la nostra utopia. La stessa utopia, capace di generare i quattro cani di cui sopra, oggi sterile come feconda è la madre degli stolti dall’occhio bovino.
Bisogna quindi ridestarne il seme, dare vita a nuovi orizzonti. Che si allontaneranno sempre, e i piedi ci faranno male, ma sarà bellissimo tornare a camminare.