lunedì 9 aprile 2012

Un articolo straordinario


    
Hans M. Enzensberger

"Un uomo lungimirante, questo Eric Blair, meglio noto con lo pseudonimo di George Orwell. Uno che di regimi totalitari se ne intendeva, assai prima che il termine entrasse a far parte del lessico degli storici. Uno che nel 1943, quando Stalin, Churchill e Roosevelt si incontravano a Teheran, già vedeva profilarsi l'antagonismo tra le superpotenze e la guerra fredda.
Qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale Orwell pubblicò il suo più celebre romanzo, 1984. Il futuro che vedeva all'orizzonte non gli piaceva. Dipinse il panorama infernale di un regno del terrore nel bel mezzo dell'Europa, che in un futuro non lontano avrebbe perfezionato i metodi di Stalin e di Hitler: un partito unico ai comandi di un "Grande Fratello"; una "neolingua" ideata per capovolgere il significato delle parole; l'abolizione della sfera privata; un regime di sorveglianza a 360 gradi, rieducazione e lavaggio del cervello dell'intera popolazione, e infine un'onnipotente polizia segreta per soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione, con la tortura, i campi di concentramento e l'assassinio.

Fortunatamente quella profezia non si è avverata, almeno per quanto attiene alla nostra parte del globo: con essa George Orwell ha ingannato sia noi che se stesso. Ma non avrebbe immaginato neppure in sogno che per ottenere almeno in parte quel risultato - e in particolare un sistema di sorveglianza a tutto campo - non c'era bisogno di una dittatura. Si poteva raggiungerlo anche all'interno di un sistema democratico, senza l'uso della violenza, con metodi civili, se non addirittura pacifisti. Più di quattro secoli fa un giovane francese, Etienne de la Boétie, aveva già incominciato a riflettere su questo tema: nel suo Discorso sulla servitù volontaria, non pago di mettere alla berlina i despoti assoluti del suo tempo, l'autore si rivolgeva soprattutto alle coscienze di chi si adattava alla tirannide: «Sono gli stessi popoli - scriveva - a subire questa piaga, o anzi a farsi male da sé; se solo cessassero di sottomettersi alla servitù, sarebbero liberi. Il popolo si assoggetta, accondiscende alla sua miseria, o addirittura la insegue... Non crediate che un uccello si lasci impaniare, né che un pesce abbocchi all'amo con più facilità di un popolo pronto a farsi allettare dalla servitù, per poco che gli si spalmi un po' di miele in bocca».

Di fatto però, già da tempo non abbiamo più a che fare con la figura del monarca unico, personalmente identificabile e attaccabile, contro cui insorgeva Etienne de la Boétie. E neppure subiamo, come nel libro di Orwell, la tirannia di un Grande Fratello, ma piuttosto il dominio di un sistema simile a quello descritto da Max Weber negli anni Venti del secolo scorso. «L'organizzazione burocratica, con le sue professionalità e specializzazioni, la separazione delle competenze, i regolamenti e i rapporti d'obbedienza in base a una scala gerarchica, sta portando avanti, di concerto con la morta macchina, l'edificazione della struttura, di quel futuro assoggettamento, nel quale forse un giorno gli uomini saranno costretti a inserirsi nella più totale impotenza, come i fellah dell'antico Stato egizio, se per essi l'unico e ultimo valore in base al quale si decida la natura e l'amministrazione dei loro affari sarà un buon sistema - buono e razionale in senso puramente burocratico - di tutela, rifornimento e gestione. Perché in questo la burocrazia è incomparabilmente più efficiente di qualsiasi altra struttura di dominio». Nelle sue previsioni, quella struttura di assoggettamento sarebbe stata «dura come l'acciaio»: ma per quanto chiaroveggente, in questo almeno Max Weber si era sbagliato, dato che nel frattempo la gattabuia si è trasformata in un abitacolo relativamente confortevole, qualcosa come una cella spaziosa ed elastica, dalle pareti di gomma. I nostri sorveglianti arrivano a passi felpati, cercando, per quanto possibile, di conseguire i loro principali obiettivi strategici - sorveglianza a tutto campo e abolizione della sfera privata - senza far rumore. Ricorrono al manganello solo quando proprio non c'è altro da fare. Preferiscono rimanere anonimi; non portano uniformi ma abiti civili; si fanno chiamare manager o commissari, e non operano più in caserme, bensì in uffici con l'aria condizionata.
Nell'espletamento dei loro compiti hanno modi amabili e cordiali. Ai residenti garantiscono la sicurezza, l'assistenza, il comfort e i consumi. Perciò possono contare sulla tacita approvazione degli abitanti, e non dubitano che i loro protetti premeranno con zelo un pulsante invisibile con la scritta «mi piace». Anche su un altro punto l'analisi di Weber appare oggi anacronistica: la sua disarmante fiducia nella forza e capacità d'azione dello Stato. Se a noi questa fiducia viene meno, non è solo perché gli Stati sono incalzati, braccati dai mercati finanziari globali, ma anche perché oggi né Berlino, né Bruxelles e neppure Washington sarebbero in grado di garantire da soli il controllo totale della popolazione; e ciò semplicemente perché i loro funzionari sono troppo sprovveduti e maldestri. Oltre tutto, non riescono neppure a stare al passo con i progressi della tecnologia. Perciò le autorità dipendono dal "mondo economico", cioè dalle corporation dell'informatica.
Solo se le due parti procedono fianco a fianco - i governi da un lato, e dall'altro imprese come Google, Microsoft, Apple, Amazon o Facebook - la presa a tenaglia sulle libertà dei cittadini raggiunge il massimo dell'efficacia. È comunque chiaro che in questa fragile alleanza, il ruolo delle istanze politiche è quello del partner più debole, dato che solo le corporation dispongono delle competenze indispensabili, del capitale e della necessaria manovalanza: informatici, ingegneri, programmatori di software, hacker, matematici e crittografi.

Nel Ventesimo secolo, né la Gestapo, né il Kgb o la Stasi avrebbero neppure lontanamente immaginato i mezzi tecnologici oggi a disposizione: le onnipresenti telecamere di sorveglianza, il controllo automatizzato dei telefoni e della posta elettronica, le immagini satellitari ad alta definizione, i profili di movimento superdettagliati, i sistemi di riconoscimento biometrico del volto; programmi gestiti grazie a stupefacenti algoritmi, memorizzati in banche dati di sconfinata capienza. L'ultimo accenno di reazione, ormai quasi dimenticato, contro lo zelo delle autorità tedesche e delle megaimprese risale al lontano 1983 - un anno prima della data che ha fornito il titolo al romanzo di Orwell.
Un censimento relativamente innocuo suscitò allora un certo allarme, e le denunce di molti cittadini furono accolte dalla Corte costituzionale. Non solo i giudici di Karlsruhe condannarono l'iniziativa del governo, ma istituirono una nuova legge costituzionale sull'"autodeterminazione informatica", a tutela della personalità.
Una sentenza che oggi appare ingenua: di fatto, nessuno ne ha mai tenuto conto. Nella cyberguerra contro la popolazione i sostenitori della riservatezza dei dati sono impotenti, e da tempo hanno gettato la spugna. Su un punto invece - quello dell'evoluzione linguistica - George Orwell ha colto nel segno: la "neolingua" da lui descritta è assurta ormai al rango di gergo ufficiale della sociologia. La Costituzione non piace ai cosiddetti servizi. Distinguerli dai criminali informatici è tutt'altro che facile. Le nuove tessere sanitarie di fatto altro non sono che una card elettronica di censimento delle malattie, facilmente decriptabile da un qualsiasi hacker.
E quanto ai social network, fanno leva sull'esibizionismo dei loro utenti per sfruttarli senza pietà. Un ultimo, molesto residuo di sfera privata è il contante. È dunque logico che lo Stato, di concerto con le corporation, metta in campo un impegno coerente per abolirlo, mediante la proliferazione di carte di credito, client card e altri sistemi di pagamento (tramite telefonia e chip) di prossima introduzione.

L'obiettivo non potrebbe essere più chiaro: esercitare una sorveglianza capillare sulla totalità delle transazioni. A ciò sono interessati, oltre al fisco, i network asociali, il commercio online, gli istituti di credito, la pubblicità e la polizia. Un altro effetto sarà quello di cancellare persino il ricordo della materialità del denaro, ridotto a una serie di dati manipolabili a piacimento. Al solo scopo di completare il quadro daremo infine uno sguardo a un settore collaterale, segnalando i tentativi in atto di abolire i diritti d'autore. Il copyright è una conquista recente, che risale al Diciannovesimo secolo. Fino a quel momento, la lettura di libri era un privilegio riservato a una piccola minoranza.
All'improvviso, il romanzo divenne un prodotto di massa. Gli scrittori si resero conto che grazie ai diritti sulle tiraturee sulle traduzioni, la letteratura poteva essere fonte di guadagni sostanziosi. Purtroppo non hanno avuto molto tempo per stare allegri. Il libro stampato, oggi denominato print, è diventato un modello di fine serie per le maggiori case editrici. Le quali considerano ormai il copyright come un ostacolo, con grande giubilo delle avanguardie digitali. Per questi allegri pirati, l'obbligo di pagare un prezzo per ciò che l'industria informatica definisce content è comunque assurdo. D'ora in poi gli autori, come venivano chiamati, dovranno rassegnarsi a lavorare gratis; in compenso potranno twittare, chattare e bloggare a piacimento.
Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che ormai il tempo di decadimento delle tecniche a nostra disposizione varia da tre a cinque anni - lo stesso ritmo dei cicli economici dei grandi gruppi informatici. Mentre un testo su pergamena o carta deacidificata rimane perfettamente leggibile a distanza di cinque secoli o anche di un millennio, i media elettronici devono essere riversati con una certa frequenza per non diventare inservibili dopo soli dieci o vent'anni: un dato che ovviamente collima con lo spirito dei loro inventori.

L'abolizione del libro stampato non è peraltro un'idea nuova. Fu preannunciata nel lontano 1953 da Ray Bradbury, nel suo bestseller (!) Fahrenheit 451, che ne descrive gli sviluppi fino alle estreme conseguenze. In quel racconto utopistico, il possesso di un libro è considerato un crimine e punito con la pena di morte. Nelle loro visioni del futuro i grandi pessimisti tendono a esagerare; ma il fatto di essere confutabili depone in loro favore, e non contro di loro. Ciò è vero sia nel caso di Bradbury e Orwell che in quello di Max Weber. Ovviamente, per saperne di più col senno di poi non c'è bisogno di essere un genio.
A fronte dei pronostici più tetri sorge una domanda, inevitabile come l'amen in chiesa: possibile che non ci sia qualche elemento positivo? La risposta è facile, visto e di grande soddisfazione: tutto ciò che è sopravvenuto grazie alla nostra volontaria servitù non ha richiesto spargimenti di sangue. I «residui del passato» non sono stati liquidati, come Lenin cercò di fare in Russia, ma continuano a esistere.
E ciò per un motivo evidente: la tolleranza dei nostri sorveglianti si basa su un semplice calcolo costibenefici. Sarebbe troppo dispendioso tentare di stanare gli ultimi refrattari, di sopprimere una piccola minoranza caparbia, che per puro e semplice puntiglio si oppone al fato digitale. Ecco perché ci si accontenta di una sorveglianza al 95 per cento. Dunque, non è il caso di farci prendere dal panico: anche perché il restante 5 per cento equivale pur sempre a quattro milioni di persone. E così anche in futuro, chi proprio non potrà farne a meno, potrà continuare a mangiare e bere, amare e odiare, dormire e leggere analogicamente senza preoccuparsi più di tanto, e restare relativamente inosservato.

martedì 3 aprile 2012

Tre volte all'alba

Lui vende bilance, dorme da 16 anni in quella camera d'albergo, e questa notte sarà l'ultima; lei è una bella quarantenne, è pazza e non vive con l'uomo che ama.
Lui è il portiere di notte dell'albergo, una volta ha ucciso un uomo e si è fatto tredici anni di galera; lei ha 16 anni ed è incinta.
Malcolm ha 13 anni, ha appena visto un incendio divorargli la casa e i genitori; Mary Jo è un detective, fra tre giorni andrà in pensione e il suo ultimo compito vuole farlo per bene.
Tre volte all'alba è un intreccio riuscito e impossibile di assenze temporali. Per una di quelle licenze che i libri concedono, Malcolm e Mary Jo si incontrano per la prima e l'ultima volta in tre momenti uguali e diversi delle loro vite. Ogni volta, insieme, troveranno salvezza alle prime luci del mattino.
Storie alla Baricco, insomma. Partorite da un talento narrativo e affabulatorio incontestabile che, signori, mettevelo in testa, direbbe Berselli, da vent'anni non fa "Letteratura di serie B", per dirla alla Pietro Citati, ma "Fiction di serie A".


Molti ricorderanno le diatribe seguite all’uscita del romanzo Questa storia, elegantemente stroncato da Michele Serra con perifrasi magistrali quanto bastonato con sadismo sublime da Citati, il quale si disse disposto a pagare ben volentieri un prezzo altissimo, pur di gustare dei “veri pomodori”, ma non era il caso del Divino Alessandro. Probabile. Baricco non sarà un vero pomodoro, ma nemmeno ambisce ad esserlo: per comodità, in tanti evitano di ricordare quella volta in cui, con rara onestà, dichiarò: “dei miei libri non resterà niente”. L’ha detto, e ciò basti ad assolverlo dai suoi peccatucci di romanziere in fondo frivolo, dalla superficialità insondabile, incapace di prestarsi a seconde letture. Ci sarebbe poi il fatto che Baricco è troppo cool, si mette a fare del cinema sulla Nona Sinfonia, parla di barbari passando da Beethoven a Google, da McEnroe ai vini di Robert Parker con dimestichezza e un’altrettanta, eccessiva agilità; poi vende troppo, per essere considerato un venerato maestro, e quindi guadagna anche troppo, laddove tutti sappiamo che il genio dev’essere necessariamente cencioso ed emarginato, da celebrarsi rigorosamente postumo.


Inappuntabile, applausi, ma sarebbe ingiusto, se non addirittura scorretto, negarne il talento palese e a tratti fulminante.
Innazitutto Baricco si ama o si odia, e sempre per i motivi sbagliati. Lo adorano per le storielle inverosimili, la prosa scorrevolissima, le stramberie dei personaggi come Plasson, pittore che dipinge il mare con l’acqua di mare dando perciò i brividi, e altre fregnacce simili. Di contro lo si disprezza per le idee campate in aria, la prosa soggetto-verbo-punto, la prolissità compiaciuta, la prepotenza del suo “Io in posa”, come lo definì Daniele Luttazzi, per non parlare degli a capo e i corsivi fini a se stessi se non a un’estetica che nelle intenzioni dovrebbe racchiudere la verità baricchiana ultima e indivisibile: io sono, voi non siete.
Si è sempre avvertita, palpabile, nella sua produzione, l’idiosincrasia per le masse da ammaliare a suon di best-sellers e soggiogare col complesso di inferiorità nei confronti di una letteratura alta, la sua, che non è alta e non è neppure letteratura, ma che riesce sempre a convincere tutti di essere l’una e l’altra. Clamorosamente.


Tre volte all’alba racchiude, rielaborandolo nella digestione, tutto il Baricco precedente, rivelandone un’insperata nuova linfa dopo le deprimenti debacle di Emmaus e Mr. Gwyn. Quest’ultimo ci mostrava un Baricco inedito, più esile e senza svolazzi troppo irritanti, attento a non cadere in voragini terribili ma, putroppo, parimenti privo dei picchi straordinari di altri suoi libri, tanto traballanti e annichiliti quanto coerentemente irrisolti: era ormai un Baricco senza Baricco, intristito e inutile, la cui creatura più prescindibile, Jesper Gwyn, accennava a un’opera di uno scrittore fittizio, dal titolo (appunto) di Tre volte all’alba. Un’eco suggestiva che da pozzanghera si è fatta mare, obbligando l’autore a tuffarcisi per riemegerne, pochi mesi dopo, con questo libriccino di novanta pagine che, udite udite, sono quanto di meglio abbia scritto Baricco dai tempi di Novecento: non così geniale e memorabile, e con appena un paio di perle, ma come questo maturo, essenziale, compiuto.
E pazienza se le tre ore di lettura godereccia trascoloreranno in fretta nel ricordo, come capita ai piaceri effimeri nel lenire il mal di vivere quotidiano. Piccole allegrie di ieri, che domani sono già finite.