giovedì 7 giugno 2012

Cotto e sfrangiato

Masterchef Italia è stata una piccola rivelazione. Non pochi i difetti, a partire da quel vezzo particolarmente mesto di cogliere nel modo più gretto, grandefratellesco, le più inveterate bassezze umorali dei protagonisti, dal chiagne e fotte allo sputacchio di fiele nei confronti del lecchino di turno adorato chi da Cracco, chi da Barbieri, chi addirittura da Bastianich; per non parlare dell’innaturalezza palese dei tre giudici, le cui frasi spezzate lette, presumibilmente, da un gobbo predisposto da Paulo Coelho, hanno sovente seminato ilarità. Bei momenti disseminati un po’ ovunque, uno su tutti l’aver portato migliaia di appassionati di alta cucina, spesso dilettanti in tale nobilissima arte in catastrofico disuso – ci metto anche il sottoscritto -, nel tempio di Gualtiero Marchesi, con quei suoi piatti ispirati all’arte pop che se siano buoni quanto commoventi lo sa solo Dio, ma ragazzi: che goduria catodica.

Quello che è affascinante, e al contempo estremamente pericoloso, in Masterchef, è l’aver avvicinato in modo vagamente furbetto, ma riuscito, il dilettantismo talentuoso dei concorrenti alla spocchia pluristellata di Cracco e Barbieri. E forse “affascinante” è dire poco, sarebbe forse meglio parlare di una dirompente, eversiva  boccata d’aria fresca, tale da sfaldare l’insipido muro dei seriosi della forchetta: di quelli che assaggiano un piatto un po’ strano, con abbinamenti fra noci caramellate e riduzione di patate viola con pene di piccione a mo’ di banderuola, e fanno la faccia dell’intellettuale che finge benissimo di non annoiarsi mentre legge Sartre, terminando l’assaggio con il folgorante evergreen salvagente per quando non si ha nulla da dire: “interessante”.
Il collegamento sorge lampante col mondo del vino. Dacché la tesi necessariamente infondata di quanto sèguito a scrivere è che gli chef, dopo l’investitura mediatica a nuovi guru inavvicinabili al normo-palato di massa, abbiano preso il posto un tempo occupato dai sommelier. Quelli che ancora oggi, appena appena minati nella loro tronfiezza, perseverano sbrodolosi a buttare lì sentori di “chiodi di garofano” e “merde de poule”, “pan-briochato” i più terra-terra. Lo strepitoso mostro partorito dalle farneticazioni olfattive dei suddetti era stato Antonio Albanese, che dopo infinite inalazioni iperboliche partoriva un verdetto apodittico: “E’ rosso”.
Il pericolo, si era detto. Il pericolo è che questo format, capace di amalgamare sacro e profano gastronomico, possa legittimare, stavolta senza il benché minimo sorriso, quell’archetipo di mediocrità incorporato da Benedetta Parodi. Che è per gli chef ciò che Antonio Albanese è stato per i sommelier, al netto della vis comica.
Benedetta Parodi assolve dai loro peccati le pasionarie del Mc Donald’s con prole al seguito, delle pizze Regina cotte al microonde, con l’acqua che elimina l’acqua ad accompagnare; ci dice che tutti hanno diritto a mangiare ogni santo giorno cose elaboratissime pur senza avere il tempo di farle per bene: non importa preparare un brodo di verdure se ci sono i dadi col glutammato; il risotto coi funghi lo si può fare benissimo con i funghi surgelati, magari già cotti, si sa, son secondi che sfuggono; signoreggia e soverchia la pasta pronta e ricolma di porcherie.

Una questione di velocità, di comodità, la vita non s’arresta un’ora. La battaglia è già compromessa, la guerra finita. Da tempo. Lo si è visto da Fazio, la Parodi a confronto con Cracco: lui fighetto, lievemente altezzoso, sensato, a parlare di “cultura del cibo”, di meno quantità e più qualità; lei indesiderabile, sciatta, a sciorinare la solita solfa della donna che tra figli e lavoro non ha il tempo di fare il brodo con le verdure, e allora è costretta ad acquistare le più invereconde schifezze pronte sugli scaffali degli ipermercati, propalando la schiccheria sottesa per cui un sano e meraviglioso spaghetto aglio e olio non si può fare, giacché è indecoroso. Cercatelo, quel filmato, in cui Cracco perde sonoramente massacrato dagli uppercut della mistress di casa Caressa. Con la beffa, a ogni pugno incassato, di sentirsi dire “Sì, lo so che hai ragione, però…”. Però.
In quell’epifania infantile sovviene, parafrasando Camus, il germe dell’apocalisse che sarà, dove pochi eletti seguiteranno a cibarsi dispendiosamente come da diktat cracchiano, mentre tutti gli altri periranno nel marcio markettato del pressapochismo di stampo parodiano.

Ma la colpa è nostra. Di noi uomini, si intende. Le donne si sono emancipate, sono felici, paiono non avvertire più il desiderio di spendere il loro tempo in qualcosa di davvero prezioso come la preparazione di una magia conviviale irripetibile. Vanno capite, sono impegnate e in carriera, hanno voglia di riscatto e non c’è di che ironizzare. Ci sono le riunioni, le promozioni, i successi. Tutte cose che si pensava potessero stimolare solo la serotonina maschile. Forse eravamo tutti in errore. Forse sarebbe il caso, quindi, per una volta, di prendere in seria considerazione l’idea di assumere il ruolo un tempo appartenuto alla donna: restare a casa, ad accudire i figli, educandoli alle cose belle. Alle cose buone. E’ sufficiente mettere da parte qualche retaggio millenario, ma gli uomini sono forti. Possono farcela. Si impegnino, e stiano loro tra quattro mura amiche e rassicuranti, a dividersi tra il basket di Fabio e il saggio di danza di Sara, a passare ore davanti ai fornelli sognando isole tropicali infestate da formidabili veneri nere. Fermare l’apocalisse si può.