mercoledì 23 gennaio 2013

Corona non perdona

Sono tre o quattro giorni che si parla solo di Fabrizio Corona. Ovunque, finanche al telegiornale di Mentana, noto fiancheggiatore del faceto.
Non ho indagato sulle motivazioni della sentenza. So questo: la Cassazione gli ha comminato cinque anni per estorsione aggravata ai danni di David Trezeguet.
Cinque anni di galera.
Pazzesco, poco da fare.
In un Paese in cui Marcello Dell'Utri, condannato a 7 anni per concorso in associazione mafiosa, stava per candidarsi col Pdl, si scomoda l'Interpol per ritrovare un paparazzo.
Corona, per quelli che sono i parametri assunti come oltremodo positivi nella condizione post-moderna, ha avuto tanto dalla vita. Bellezza, donne, fama, soldi a palate. Non si è mai accontentato, né se lo sarebbe mai permesso.
La sua colpa più grande, al di là delle evasioni fiscali, dell'ignoranza profusa, della volgarità disseminata ovunque, è stata la sua pretesa di non avere limiti. Di poter prevaricare su tutto e tutti, impunemente, nella Terra dell'Impunità Relativa.
La sentenza è indiscutibile. Dura, eccessiva, ridicola se rapportata al contesto sociale: ma indiscutibile.
Si può discutere di due cose.
La prima è semplice: in un momento storico maledettamente cruciale per l'Italia, concedere ogni spazio possibile alla vicenda di un noto fotografo significa distrarre gli italiani, già di per sé volpi notoriamente arzille, da problemi appena più gravi, e impellenti. Difatti, da giorni triellano i soliti schieramenti: chi difende Corona; chi vorrebbe vederlo morire in carcere; chi parla della vicenda affermando che la vicenda, in sé, non rientra esattamente fra le cosiddette "pre.pro.pre." (precipue proprie preoccupazioni).
La seconda è più complessa.
David Trezeguet non è una persona qualunque. E' un calciatore famoso il cui stipendio, di inaccettabile entità e sul quale ha sempre pagato altrove le tasse, è determinato da un insieme di fattori: la pubblicità, e quindi la popolarità, ne costituisce il 70%. Se una persona popolare viene beccato a mignotte, o a cornificare la moglie, per quanto encomiabili possano ritenersi entrambi i gesti, avrà un calo di popolarità. Quindi di sponsor. Quindi di introiti.
Se foste stati David Trezeguet, avreste preferito regalare a Corona una settimana di tiri in porta, o essere scoperti da vostra moglie?
Il fatto che Corona sia stato condannato solo per l'estorsione a Trezeguet dimostra: a) che Corona ha fatto qualche cazzata in più del solito; b) che Trezeguet ha denunciato Corona, mentre altri suoi colleghi VIP non l'hanno fatto. Se su cento vittime di estorisione l'estorsore viene denunciato una volta sola, mentre in tutti gli altri casi l'estorsore guadagna vendendo al soggetto fotografato fotografie che avrebbe venduto il giorno dopo a qualche giornale, il suo gesto cessa di assumere qualsivoglia connotazione negativa.
La popolarità e i compensi che questi personaggi, ivi incluso Berlusconi che pagò Corona per le foto di sua figlia, hanno guadagnato sul nulla negli ultimi vent'anni, hanno semplicemente trovato nella prassi di Corona l'inevitabile contrappasso: il doveroso prezzo da pagare per un paradiso conquistato senza fatica, sull'idiozia innata degli italiani.
In definitiva, Corona può essere visto come estorsore, ma anche come benefattore di sé e dei VIP.
Di sicuro, per essere un criminale, si è dimostrato parecchio fesso.
Altrettanto sicuramente, potesse candidarsi, prenderebbe più voti di Ingroia.

martedì 8 gennaio 2013

Era fiero di sua figlia

Premessa: "Non è  un paese per vecchi" è una traduzione errata, orribile e fuorviante. McCarthy voleva dire proprio "Non esiste paese per vecchi". Perché è l'uomo tutto, e quindi il globo, ad aver visto una mutazione genetica.
Per quelli con le promesse dentro al cuore, per i costruttori di abbeveratoi indistruttibili, non c'è più spazio. Non ce n'è, e basta.
Esempio, i ragazzini. Ce lo si metta in testa: non è che parlino di cazzi e pompini a 12 anni perché hanno genitori malati, o incolti, o menefreghisti: sono solo un'altra razza di esseri umani.
A dieci anni vogliono i telefonino, a undici il portatile, a tredici scopare se nel frattempo non si sono già esauriti su video la cui eroticità intrinseca è appena più su in classifica di un calzettone bianco su ballerina di cuoio nero e fiocchettino di vernice beige. E di Nicole Minetti.
Non c'è da fare moralismi, indignarsi, gridare allo scandalo. E' ridicolo. E' inutile. Tutto sommato non succederà niente di che.
In fondo, per quanti secoli i figli degli schiavi hanno fatto gli schiavi?
Un paio di generazioni se la sono spassata per trenta, quarant'anni, e via, chiuso, finito: ora la giostra ricomincia.
E proprio da Internet. Ma ci pensate?
Uno strumento così straordinario e così semplice da bloccare al contempo, ma nessuno che tenti di sopprimerlo come sarebbe lecito attendersi innazi a un carbonarismo davvero pericoloso per l'Ordine.
Gli Indignados venerano il Web; i governi lo ringraziano.
Surreale, no?


Ma non era di questo che volevo parlare.
Ho letto tante statistiche, ultimamente. Sapete, da radical-chic cerco un posto dove emigrare, e la vita non sia merda vilipesa da fascisti democristiani, e ci sia qualche angolo verde dove far scorazzare un bambino.
Mi ha molto colpito un dato in particolare. Se ne parla da tempo, ma nell'arrivare tardi sono secondo solo a Ilaria D'Amico.
Comunque, il dato è che i laureati in Italia non hanno spazio; che se al posto di buttare anni all'Università cercavi di imparare un mestiere, forse a quest'ora qualche possibilità l'avevi; che, insomma, i diplomati trovano lavoro molto più in fretta dei laureati, i quali - automaticamente cittadini di serie A +++ - devono andarsene altrove a veder riconosciuto il proprio genio irrinunciabile all'Umanità.
Ma cosa significa essere laureati, in Italia?
Quale bagaglio tecnico - formativo, realmente utile in campo professionale, si può desumere essere regolarmente assunto dall'universitario normotipo, nonché convogliato in qualcosa di vagamente similare all'idea ottocentesca di "formazione"?
E soprattutto, i governi succedutisi negli anni sono stati incapaci di valorizzare gli studi, o dei maghi a rendere concettualmente ammissibile l'odierno paradosso, creando un sistema universitario che forma molto meno di quanto non faccia un anno di apprendistato in una pasticceria?

Fate un piccolo test. Prendete un libro, uno qualsiasi, chessò, Storia della lingua italiana di De Mauro. Bel libro, eh, niente da dire. Ma vediamo in cosa consiste la preparazione di un esame universitario di, appunto, Lingua Italiana.
Per prima cosa, compri il libro. Questo di De Mauro, e altri  due, o tre. Dipende dai crediti formativi. I CFU. Le tabelle affermano che ogni CFU equivale a 25 ore di studio complessivo, quindi tre libri sulle 150 pagine cadauno da studiare fanno 6 CFU.
Geni. Geni.
Il professore non può sgarrare, altrimenti gli studenti si ribellano, oh, se si ribellano.
Una volta ho visto una scena epica. Due giovincelle (poi dott.sse cum laude) imputavano senza pudore alcuno a un'insegnante di spagnolo di aver ecceduto di 5 ore il programma previsto per gli aventi 6 CFU:
"noi portiamo un programma più piccolo, giusto?".
La faccia della donna, prima del "Sì, va bene...", mi rimarrà impressa per tutta la vita.
Comunque, torniamo al libro.
Se il docente è un'anima pia, oltre che rea, suole farne trovare le fotocopie in qualche copisteria connivente. Tu vai in copisteria, spendi 20-30 euro di fotocopie, compri un evidenziatore e vai a casa.
Leggi. Sottolinei. Rileggi. Ripeti.
Ti sei fatto anche gli appunti in classe, ma il docente è tenuto a interrogarti sul libro, altrimenti guai a lui. Quindi puoi anche lasciarli stare.
Se sei uno di quelli che non ti si è mai bloccato il telefono per aver cannato tre volte il PIN, né ti sei mai chiuso il portone di casa con le chiavi appese dietro, arrivi all'esame che potresti recitare De Mauro a memoria, come i vecchi presidi dei licei facevano con la Divina Commedia.
De Mauro afferma.
De Mauro dice.
Secondo De Mauro.

Se arriva il fesso che pensa di stare in Danimarca:
"Io ho pensato di analizzare..."
"Prego?"
"No, cioè, volevo dire, personalmente ritengo..."
"Eh??"
"Insomma, solo che, pensavo..."
"Fuori.".

Lo schema si ripete all'infinito. I grandi professori rimasti sono il 2% dell'organico e sono quasi tutti ricercatori che guadagnerebbero di più a pulire le scale; per il resto è tutto un gran ingoiare di dati che si dimenticano il giorno dopo l'esame. Come il mangime per i maiali diretti ai macelli affiliati Mc Donald's.
Se la cultura è quello che ti rimane dopo che hai studiato, beh: fate un po' voi.
E chiedetevi se certa gente possa dirsi davvero più necessaria di un elettricista.

La stessa cosa avviene per i concorsi, prima i TFA e poi quelli per l'insegnamento. E' semplice passarli, diamine. E poi, come sono meritocratici.
Pensate, occorre solo andare in una libreria, pagare 50 euro, e vi beccate qualche migliaio di test e domande a risposta multipla o aperta da imparare a memoria. Non dovete fare altro che memorizzarle, onde vomitarle in sede d'esame.
Non è fantastico?
Riuscite a immaginare un primo sbarramento più intensamente selettivo per decidere chi insegnerà Italiano ai vostri figli e chi al massimo potrà andare a insegnare al Cepu?

Ma alla fine, che importa. Fra un po' nemmeno esisteranno più, gli insegnanti. Comprerete su Internet dei video del MIUR, pregni di filosofia multitasking, di pillole del sapere, e via.
Gli insegnanti in carne ed ossa, magari bravi, saranno roba vecchia, per l'élite sborona e sorniona. Che per puro spirito aristocratico farà stare la prole a casa, con un precettore inutilmente colto e appassionato di cose antiche; e, che squallore, i futuri dirigenti mica studieranno sull'I-Pad, con quei colori, quei luccichii, no, macché: su qualche vecchio libro logoro e impolverato. Faranno loro leggere Marcuse, Dostoevskij, Sartre.

Che prezzo orrendo da dover pagare, solo per comandare.