lunedì 1 luglio 2013

Lucky






Oggi il mio cane è morto.

Aveva 14 anni di età canina, quindi 98 anni umani, ma considerato che l’età canina è una minchiata antropomorfizzante inventata dall’uomo il conteggio resta sempre implacabile: 14.
E’ morto, in preda a convulsioni epilettiche improvvise, a nemmeno due giorni dai primi sintomi.
Stava scendendo le scale, e all’improvviso bam!, le gambe non gli reggevano e ha picchiato la testa. Pensavamo a una sorta di rincoglionimento senile, nemmeno c’è venuto in mente di portarlo dal veterinario.
Comunque, non sarebbe servito. Ha tirato giù tutti alle cinque del mattino, non ce la faceva più.
Io non c’ero.
Dormivo da un’altra parte, sono stato chiamato poco prima dell’iniezione.
Mi sono vestito, ho atteso che i miei gentili visitatori occasionalmente accorsi in un giorno inopportuno andassero via, sono corso in clinica.
Era lì, steso, bellissimo come sempre. Pareva dormisse. Dormiva molto.
L’ho accarezzato un’ultima volta, e me ne sono andato.

Se ve lo state chiedendo, nel caso non lo trovaste lampante da alcuni indizi, beh, vi dico che non ho pianto. Né piango adesso. Né credo piangerò.

In fondo non mi dispiaceva troppo per lui.
E’ una merda dirlo, ma è così. Almeno per la metà della vita, non è stato fortunato.
Me l’ero ritrovato sotto il tavolo l’ultimo giorno di scuola, in prima media. Correva dovunque, scagazzando qua e là, e non si lasciava prendere.
E’ stato così per 14 anni. Dopo sette anni ho colpevolmente smesso di rincorrerlo.
Gli volevo bene, provavo a giocarci, ma non mi filava. Non ha mai filato nessuno, né firmato le gesta buffe che mi sarei aspettato da un animaletto che ero troppo piccolo per definire un amico, e non abbastanza grande da non considerare un peluche più dinamico.
Suona un po’ come addossare la colpa di un rapporto mancato al cane. Grottesco, ridicolo, inaccettabile.
Ma in parte è così.
Onestamente non ho mai visto un cane così anaffettivo eppure tanto buono, adorabile, totalmente incapace di fare del male.
Non l’ho mai capito.
Né lui, evidentemente, ha mai capito noi. E in questo doveva essere enormemente intelligente.

Col senno di poi, e non dell’undicenne che ero, immaginando di essere padrone della mia vita almeno quanto chiunque dovrebbe essere prima di assoggettare a sé la felicità di un altro essere vivente, mi sarei comportato diversamente.
L’avrei educato a stare fuori dalla mia camera, ma non fuori dalla mia casa, perché fra amici teoricamente si fa così.
Gli avrei regalato il bel giardino che ha avuto per sé, lasciandogli però tutte le porte aperte.
L’avrei fatto trombare, perché niente è più triste che arrivare al traguardo senza avere mai visto l’ombra di una fregna.
Gli avrei permesso di volermi bene.
Sono sicuro che l’avrebbe fatto, e ora sarei nella mia camera a piangere, anziché davanti a un computer a scrivere un raccontino del cazzo che leggeranno in venti.

I primi sette anni sono stati belli lo stesso. Per gli altri sette, mi dispiace. Tanto.