giovedì 26 settembre 2013

E ora, la Sapienza



Pare che l’Università di Atene chiuda.
Pur nella consapevolezza che possa sgomentare abbastanza la psicolabilità italiota da indurre ad inondare di retorica una landa dove cinque individui e mezzo su dieci ammettono di non leggere in un anno neppure le istruzioni per lo shampoo contro la dermatite seborroica, ritengo vada fatta un po’ di sana auto-critica da parte di tutti.
Da tempo vado sostenendo come non sia un caso che le due culle precipue dell’Occidente, virtuoso sino all’avvento della Prima Rivoluzione Industriale all’interno della quale poterono covarsi i germi del capitalismo che annichilirà il mondo, stiano ora collassando per la decadenza pluridecennale del benché minimo standard di progressismo e, soprattutto, di onestà nell’amministrazione della cosa pubblica.
I greci truccarono i conti pubblici per accaparrarsi le olimpiadi, mettendo sul piatto miliardi che non avevano (così come non li aveva Roma un anno fa, quando per inspiegabile grazia divina Monti bloccò le velleità intrinsecamente sportive di una nazione allo sbando totale): e poiché – dispiace per lorsignori che guadagnano milioni di Like asserendo la bontà della plebe a fronte della spietatezza della classe politica “democraticamente” eletta – dicevo, poiché la classe dirigente è sempre prodotto, oltre che specchio, della cittadinanza, temo che la débacle ellenica fosse annunciata da parecchio. E pur non vivendo in Grecia, posso asserire con una vaga certezza che la miseria morale constatabile quotidianamente nelle genti nostrane sia equiparabile a quello del popolo greco. Ma diciamo pure spagnolo. Portghese, chessò. Prima o poi saranno contaminate anche le classi operaie, impiegatizie e dirigenti del Nord Europa, è solo questione di tempo. L’esterofilia non c’entra nulla.
Ora veniamo alla questione squisitamente universitaria.
Se tanto mi dà tanto, chiediamoci: forse che l’Università greca assomigli, negli ultimi, diciamo, trent’anni, all’università italiana? Sapete, l’assenza di campus, la struttura piramidale, i baroni, le lezioncine, le nozioncine, le dispensine del 1974, le lotterie di cinque minuti all’esame, l’ammazzamento di qualsivoglia formazione umanistica di livello mutuata in un succo tuttifrutti mascherabile da paideia classica di ispirazione platonica?
L’andazzo di un Paese si vede soprattutto nelle sue prigioni e nelle sue scuole, specie universitarie: beh, lasciate che ve lo dica dati OCSE alla mano, il sistema scolastico italiano (come quello greco) è in picchiata totale da tempo. Una montagna di tempo.
Qualcuno ci ha messo una pezza sopra? Andate, andate a farvi un giro nelle università e ditemi se, a essere un minimo onesti, le nostre università possano dirsi MINIMAMENTE dei luoghi di formazione, o se siano piuttosto un crogiuolo della peggior insensatezza rinvenibile nella nostra tradizione.
All’interno di strutture vecchie e inadeguate agiscono forme di pensiero e modus operandi vecchi e inadeguati: una forma deteriore di nozionismo condito di desideri utilitaristici, che sforna pochi laureati spesso incompetenti e timorosi dinnanzi alla vita, perché timorosi sempre e comunque sono stati con i loro irraggiungibili tromboni accademici.
Possiamo davvero piangere, al netto dell’oggettivamente devastante situazione greca, per la chiusura dell’emblema di un’istituzione che ha oggettivamente fal-li-to? L’Università non è la filarmonica, non è arte e non è un totem. La musica nella sua più alta compiutezza non deve essere toccata, e la sua soppressione è stato un peccato imperdonabile di cui l’Europa dovrà rispondere, prima o poi.
Ma l’Università è qualcosa d’altro. Non è un Notturno di Chopin, intoccabile e perfetto, da eseguire eventualmente con un gusto diverso a seconda dell’epoca o sensibilità di chi esegue: è un ente di formazione. Le esigenze formative cambiano. Il Mondo, piaccia o meno, e io sono uno di quelli a cui non piace, cambia e cambierà. Vogliamo impuntarci a vedere il contrario? Fate pure. Io personalmente guardo al futuro.
Essendo totalmente incapace di stimolare e pungolare gli allievi al di là di una comprensibile voglia di acquisire un pezzo di carta, l’Università così organizzata non può fare altro che essere chiusa.
Non se ne può più di sentire la retorica di quanto sono bravi i ragazzi che studiano, che vanno all’università, e magari fanno parte di quel 40% di studenti – magari anche brillanti – che smettono presto o finiscono tardi per la fatica di affrontare il TSO giornaliero che l’istituzione universitaria comporta alla sua utenza.
Se l’università ha solo costi, e raggiunge bassezze tali da generare selve di  laureati frustrati e insoddisfatti dall’essere mantenuti a trentadue anni in attesa di un posto decente, e nel frattempo non ha neppure il buon gusto di fornire a quei futuri frustrati una formazione come si deve, basta: va chiusa.
A meno che non si abbia la voglia, la capacità e la visione per cambiare. Radicalmente.
Conoscendo gli italiani, e immaginando i greci simili ad essi, pur addolorandomi per le loro e nostre sventure, so che non basterà questa crisi a generare una resipiscenza che amerei attendermi da due popoli che hanno permesso quanto di meglio è avvenuto, o si è creato, negli ultimi due millenni. L’Occidente sta tramontando, e nelle sue rappresentazioni più secolari manifesta un’apocalittica riottosità all’auto-analisi, al cambiamento. Quindi qualche mossa, sia pure col pretesto dell’insolvibilità, va fatta. Se l’Università di Atene costava in misura inversamente proporzionale a quello che produceva – il nulla, si presume, o mal che fosse l’ennesimo futuro dirigente servile e corrotto – è un bene, per la cultura, che sia stata chiusa.
Come andrebbero chiuse anche molte università italiane. Magari cominciando dalla Sapienza.
Distruggere sarebbe l’unico modo per ricominciare, e ripensare anche da par nostro all’intero sistema scolastico. Chiediamo all’Europa di sprangare anche le porte delle nostre università. Il tempo di spargere in giro la fuffa dell’attentato alla cultura, per mobilitare sindacalisti e baroni, e spacciare la riapertura di questi non-luoghi come una vittoria dell’Umanesimo. A sua insaputa.