Selvaggia Lucarelli, bella e genialoide twitter-guru con un seguito di 78.000 followers, alcuni giorni fa si è così espressa sul proprio account
Twitter: “Dietro
l'addio di certi Vip su twitter (Fiorello &co), c'è un fatto banale:
Twitter li ha pagati per lanciare Twitter e poi non ha rinnovato il contratto.”. Ingenuamente schifata la replica di un segugio
della Lucarelli: “se fosse vera questa
notizia sarebbero SQUALLIDI!”. Ma la blogger redarguisce alla vecchia
maniera: “perché squallidi?Twitter è
un’azienda, mica un ente benefico, e se vuole testimonial li paga.”. Oh,
là. Finalmente qualcuno, fra gli dei del Monte Twitter, si è caricato sulle
spalle il fardello, assai gravoso, di riassestare illusioni patetiche: ovvero
che dietro l’attiva partecipazione di taluni V.I.P. sui due maggiori (un)social
network della Rete potesse celarsi il desiderio di sviluppare un rapporto diretto,
persino intimo, con i rispettivi fans. A smuovere tali V.I.P. grandi come
coriandoli sarebbe stata invece la solita, infinita dose del più abietto e
immotivato narcisismo, ma soprattutto una quantità, al momento incalcolabile,
di denaro sonante. Rivelazione sconcertante e inattesa, ne converrete tutti.
La Lucarelli, da persona intelligente qual è,
ha utilizzato una parola precisa, fondamentale per comprendere le dinamiche
regolatrici delle piattaforme sociali (invero molto piatte e poco sociali, come
certe insopportabili babbione): “azienda”. Se vi siete mai chiesti per quale
motivo Facebook e Twitter siano gratuiti e sempre lo saranno, o da dove provengano
i miliardi atti a rendere Mark Zuckerberg il trentacinquesimo uomo più ricco
della Terra secondo Forbes, siete
entità raziocinanti e vi sarete di certo dati, marzullianamente, una risposta.
Che è tanto semplice quanto grottesca: tutti coloro che decidono di servirsi
regolarmente di Twitter e Facebook, non importa se smodatamente o con un minimo
di buon senso, sono null’altro che lavoratori dipendenti, inconsapevoli e non
retribuiti dei dominatori del Mondo; dei grandi marchi, degli stilisti indebitati
fino al midollo, delle banche d’affari che fanno crollare paesi come la Grecia,
insomma, dei signori del mercato globale, post-capitalista e nichilista. Il
meccanismo è banalissimo. Esempio: Mick Jagger posta sul profilo Twitter una
foto in cui indossa la nuova maglietta di una certa azienda d’abbigliamento: il
giorno dopo, quella stessa azienda, proprio di quella maglietta venderà cinque
milioni di esemplari. Senza sforzo né dolo, e con il solo Jagger a libro paga. Intuizione
luciferina, sulla quale oggi, e purtroppo non è una battuta, si reggono le
sorti del nostro pianeta, globalizzato e no.
Le ragioni di tale deriva dei social network,
votati ora unicamente al marketing, andrebbero ricercate scavando nell’ontologia
dei social, delle community e dello stesso Internet. Compito da intellettuali,
se solo gli intellettuali di pregio ancora in vita non fossero troppo distanti
o troppo irresponsabilmente coinvolti dalle meraviglie del Web, nonché collusi
con le sue nefandezze. C’è poi chi si compiace di essere fuori tempo, alimentando
inutile tecnofobia che va solo a vantaggio dei padroni. Poco tempo fa, disteso
sulla sua amaca, attingendo un Long Island presumibilmente da uno chiccoso
bicchiere a forma di Lenin con tanto di baffi, Michele Serra, ridestatosi dal
torpore pomeridiano al grido de “la rivoluzione non dorme mai!”, tuonò dalle
pagine di Repubblica: “Twitter mi fa
schifo”. Seguirono appoggi e contestazioni
tecnofile da tutte le parti, alle quali Serra rispose con una lieve rettifica
in cui motivava la tautologia di cui sopra avanzando da un fatto tecnico: i 140
caratteri di Twitter, secondo lui, sarebbero troppo pochi per esprimere decentemente
pensieri complessi o addirittura compiuti. Ahinoi, non è nel numero di caratteri
disponibili, il problema. Anzi, a dirla tutta, è proprio nella scarsità di
spazio a disposizione che emerge il lato più oggettivamente intrigante di
Twitter: il suo essere per molti versi una palestra di scrittura, dove
condensare, smussare, asciugare al massimo, un aforisma o una battuta satirica;
implementandone addirittura la portata comica, come nel caso di questo
brillante twit di un noto e talentuoso
blogger, QdG, che il 5 marzo 2012, dopo le primarie del centrosinistra a
Palermo, scrive 75 caratteri di puro genio : “la sconfitta della Borsellino dimostra che Bersani indigna più del
tritolo.”
Il problema è altrove. Magari, per cominciare,
nel nome e nel ruolo conferito agli iscritti dei due portali. Gli utenti
Facebook si scambiano l’amicizia (si fa per dire); quelli di Twitter diventano
followers, ovvero, letteralmente, seguaci di qualcun altro, che nove volte su
dieci è un V.I.P. Impossibile non intravedere già in tali premesse una sottomissione
del popolo di Twitter alla dittatura delle celebrità, dei loro silenzi, della
loro spocchiosa indifferenza che, per le leggi immutabili dell’idiozia umana,
li rendono ancor più desiderabili agli occhi della plebe. Di questa moltitudine
Facebook e Twitter veicolano, seppur in forme vagamente differenti, le stesse,
flebili manifestazioni: indignazioni, speranze, gusti
cultural-musical-politici, aneliti malcelati alle più sfrenate e disinibite
soddisfazioni sessuali; in una guerra planetaria a chi è più anticonformista e
scandaloso, e quindi più conforme, innocuo e asservibile. Se tuttavia è vero,
come è vero, che Twitter avanza inarrestabile verso il trono dei social
network, ci sarà di che rimpiangere il dominio di Facebook, non-luogo che
quantomeno si proponeva di allargare i cerchi relazionali abbracciando in una
finta fratellanza individui sconosciuti sì, ma parigrado. Twitter, invece, sin
dall’inizio si è imposto poggiando efficacia e consensi sulla più arcaica e
schiavistica delle strutture piramidali, dove in cima, sui loro scranni celesti,
stanno i V.I.P., quasi tutti tanto privi di talento quanto strapagati, mentre
alla base milioni di followers adulano e carezzano, mai corrisposti, l’idolo di
turno, sempre intento a trastullarsi in onanismi egoriferirti: Alessandro
Baricco che scrive in spagnolo giacché l’italiano fa poco figo; Fabio Volo
mugugnante la sua ansia prima del flop in tivù o in radio (dove ammonirà i
followers scandendo “non rompetemi le palle”); Alfano e Casini prodighi di
bacetti pre- e post-inciucio elettorale dai relativi profili-sputacchiera. Questa
è la cifra di Twitter: il pettegolezzo, il voyeurismo, la fatuità suprema,
estrema e insostenibile. Caratteristiche preoccupanti e decisamente da esecrare
per aver tradito quell’ideale di socialità e coesione fra individui uguali che
è, o dovrebbe essere, teoricamente sotteso ad ogni social network; un
tradimento attuato ingigantendo fra gli utenti la già fallace percezione di un’intimità
inesistente con gallinelle appollaiate su vertici irraggiungibili, e al
contempo abbattendo ogni reale spiraglio possibile di dialogo, solidarietà e
democrazia. Il problema ultimo è quindi la degenerazione di questo
cortocircuito tremendo, che va immediatamente risolto. Ma come?
Ennio Flaiano, nella Filosofia del rifiuto contenuta nel suo Diario degli errori, ci risponderebbe che è preferibile dire No a
tutto ciò che può ritorcersi contro di noi: anche a Twitter; per quanto lui
stesso, forse, sarebbe stato un formidabile twitter-guru, non meno di Oscar
Wilde o Gesualdo Bufalino. In ultima analisi bastererebbe, nei confronti di
questi V.I.P. che a uno a uno molleranno Twitter, compiere un’ultimo balzo conformista
e idolatrante da strenui seguaci dei loro cinguettii: emulare dapprima i
Fiorello, e poi quelli che inevitabilmente seguiranno (come l’irrinunciabile
Michelle Hunziker), nell’abbandono del social network più fascistoide mai
concepito; nel ripiego sereno verso l’incasinato eremo quotidiano; nel ritorno
esclusivo alla realtà vera, eccitante e crudele, mortale e salvifica, dove
guardarsi finalmente negli occhi, tutti insieme su questa misera barca, mentre
prendiamo acqua da tutte le parti. Per costruire la nostra zattera di pietra. Prima
che sia troppo tardi.