Pare che l’Università di Atene
chiuda.
Pur nella consapevolezza che
possa sgomentare abbastanza la psicolabilità italiota da indurre ad inondare di
retorica una landa dove cinque individui e mezzo su dieci ammettono di non
leggere in un anno neppure le istruzioni per lo shampoo contro la dermatite
seborroica, ritengo vada fatta un po’ di sana auto-critica da parte di tutti.
Da tempo vado sostenendo come non
sia un caso che le due culle precipue dell’Occidente, virtuoso sino all’avvento
della Prima Rivoluzione Industriale all’interno della quale poterono covarsi i
germi del capitalismo che annichilirà il mondo, stiano ora collassando per la
decadenza pluridecennale del benché minimo standard di progressismo e,
soprattutto, di onestà nell’amministrazione della cosa pubblica.
I greci truccarono i conti
pubblici per accaparrarsi le olimpiadi, mettendo sul piatto miliardi che non
avevano (così come non li aveva Roma un anno fa, quando per inspiegabile grazia
divina Monti bloccò le velleità intrinsecamente sportive di una nazione allo
sbando totale): e poiché – dispiace per lorsignori che guadagnano milioni di
Like asserendo la bontà della plebe a fronte della spietatezza della classe
politica “democraticamente” eletta – dicevo, poiché la classe dirigente è
sempre prodotto, oltre che specchio, della cittadinanza, temo che la débacle
ellenica fosse annunciata da parecchio. E pur non vivendo in Grecia, posso
asserire con una vaga certezza che la miseria morale constatabile
quotidianamente nelle genti nostrane sia equiparabile a quello del popolo
greco. Ma diciamo pure spagnolo. Portghese, chessò. Prima o poi saranno
contaminate anche le classi operaie, impiegatizie e dirigenti del Nord Europa,
è solo questione di tempo. L’esterofilia non c’entra nulla.
Ora veniamo alla questione
squisitamente universitaria.
Se tanto mi dà tanto,
chiediamoci: forse che l’Università greca assomigli, negli ultimi, diciamo,
trent’anni, all’università italiana? Sapete, l’assenza di campus, la struttura
piramidale, i baroni, le lezioncine, le nozioncine, le dispensine del 1974, le
lotterie di cinque minuti all’esame, l’ammazzamento di qualsivoglia formazione
umanistica di livello mutuata in un succo tuttifrutti mascherabile da paideia
classica di ispirazione platonica?
L’andazzo di un Paese si vede
soprattutto nelle sue prigioni e nelle sue scuole, specie universitarie: beh,
lasciate che ve lo dica dati OCSE alla mano, il sistema scolastico italiano (come
quello greco) è in picchiata totale da tempo. Una montagna di tempo.
Qualcuno ci ha messo una pezza
sopra? Andate, andate a farvi un giro nelle università e ditemi se, a essere un
minimo onesti, le nostre università possano dirsi MINIMAMENTE dei luoghi di
formazione, o se siano piuttosto un crogiuolo della peggior insensatezza
rinvenibile nella nostra tradizione.
All’interno di strutture vecchie
e inadeguate agiscono forme di pensiero e modus operandi vecchi e inadeguati:
una forma deteriore di nozionismo condito di desideri utilitaristici, che
sforna pochi laureati spesso incompetenti e timorosi dinnanzi alla vita, perché
timorosi sempre e comunque sono stati con i loro irraggiungibili tromboni
accademici.
Possiamo davvero piangere, al
netto dell’oggettivamente devastante situazione greca, per la chiusura dell’emblema
di un’istituzione che ha oggettivamente fal-li-to? L’Università non è la
filarmonica, non è arte e non è un totem. La musica nella sua più alta
compiutezza non deve essere toccata, e la sua soppressione è stato un peccato
imperdonabile di cui l’Europa dovrà rispondere, prima o poi.
Ma l’Università è qualcosa d’altro.
Non è un Notturno di Chopin, intoccabile e perfetto, da eseguire eventualmente
con un gusto diverso a seconda dell’epoca o sensibilità di chi esegue: è un ente di formazione. Le esigenze
formative cambiano. Il Mondo, piaccia o meno, e io sono uno di quelli a cui non
piace, cambia e cambierà. Vogliamo impuntarci a vedere il contrario? Fate pure.
Io personalmente guardo al futuro.
Essendo totalmente incapace di
stimolare e pungolare gli allievi al di là di una comprensibile voglia di
acquisire un pezzo di carta, l’Università così organizzata non può fare altro
che essere chiusa.
Non se ne può più di sentire la
retorica di quanto sono bravi i ragazzi che studiano, che vanno all’università,
e magari fanno parte di quel 40% di studenti – magari anche brillanti – che smettono
presto o finiscono tardi per la fatica di affrontare il TSO giornaliero che l’istituzione
universitaria comporta alla sua utenza.
Se l’università ha solo costi, e
raggiunge bassezze tali da generare selve di
laureati frustrati e insoddisfatti dall’essere mantenuti a trentadue
anni in attesa di un posto decente, e nel frattempo non ha neppure il buon
gusto di fornire a quei futuri frustrati una formazione come si deve, basta: va
chiusa.
A meno che non si abbia la
voglia, la capacità e la visione per cambiare. Radicalmente.
Conoscendo gli italiani, e
immaginando i greci simili ad essi, pur addolorandomi per le loro e nostre
sventure, so che non basterà questa crisi a generare una resipiscenza che
amerei attendermi da due popoli che hanno permesso quanto di meglio è avvenuto,
o si è creato, negli ultimi due millenni. L’Occidente sta tramontando, e nelle
sue rappresentazioni più secolari manifesta un’apocalittica riottosità all’auto-analisi,
al cambiamento. Quindi qualche mossa, sia pure col pretesto dell’insolvibilità,
va fatta. Se l’Università di Atene costava in misura inversamente proporzionale
a quello che produceva – il nulla, si presume, o mal che fosse l’ennesimo
futuro dirigente servile e corrotto – è un bene, per la cultura, che sia stata
chiusa.
Come andrebbero chiuse anche
molte università italiane. Magari cominciando dalla Sapienza.
Distruggere sarebbe l’unico modo
per ricominciare, e ripensare anche da par nostro all’intero sistema
scolastico. Chiediamo all’Europa di sprangare anche le porte delle nostre
università. Il tempo di spargere in giro la fuffa dell’attentato alla cultura,
per mobilitare sindacalisti e baroni, e spacciare la riapertura di questi
non-luoghi come una vittoria dell’Umanesimo. A sua insaputa.