martedì 3 aprile 2012

Tre volte all'alba

Lui vende bilance, dorme da 16 anni in quella camera d'albergo, e questa notte sarà l'ultima; lei è una bella quarantenne, è pazza e non vive con l'uomo che ama.
Lui è il portiere di notte dell'albergo, una volta ha ucciso un uomo e si è fatto tredici anni di galera; lei ha 16 anni ed è incinta.
Malcolm ha 13 anni, ha appena visto un incendio divorargli la casa e i genitori; Mary Jo è un detective, fra tre giorni andrà in pensione e il suo ultimo compito vuole farlo per bene.
Tre volte all'alba è un intreccio riuscito e impossibile di assenze temporali. Per una di quelle licenze che i libri concedono, Malcolm e Mary Jo si incontrano per la prima e l'ultima volta in tre momenti uguali e diversi delle loro vite. Ogni volta, insieme, troveranno salvezza alle prime luci del mattino.
Storie alla Baricco, insomma. Partorite da un talento narrativo e affabulatorio incontestabile che, signori, mettevelo in testa, direbbe Berselli, da vent'anni non fa "Letteratura di serie B", per dirla alla Pietro Citati, ma "Fiction di serie A".


Molti ricorderanno le diatribe seguite all’uscita del romanzo Questa storia, elegantemente stroncato da Michele Serra con perifrasi magistrali quanto bastonato con sadismo sublime da Citati, il quale si disse disposto a pagare ben volentieri un prezzo altissimo, pur di gustare dei “veri pomodori”, ma non era il caso del Divino Alessandro. Probabile. Baricco non sarà un vero pomodoro, ma nemmeno ambisce ad esserlo: per comodità, in tanti evitano di ricordare quella volta in cui, con rara onestà, dichiarò: “dei miei libri non resterà niente”. L’ha detto, e ciò basti ad assolverlo dai suoi peccatucci di romanziere in fondo frivolo, dalla superficialità insondabile, incapace di prestarsi a seconde letture. Ci sarebbe poi il fatto che Baricco è troppo cool, si mette a fare del cinema sulla Nona Sinfonia, parla di barbari passando da Beethoven a Google, da McEnroe ai vini di Robert Parker con dimestichezza e un’altrettanta, eccessiva agilità; poi vende troppo, per essere considerato un venerato maestro, e quindi guadagna anche troppo, laddove tutti sappiamo che il genio dev’essere necessariamente cencioso ed emarginato, da celebrarsi rigorosamente postumo.


Inappuntabile, applausi, ma sarebbe ingiusto, se non addirittura scorretto, negarne il talento palese e a tratti fulminante.
Innazitutto Baricco si ama o si odia, e sempre per i motivi sbagliati. Lo adorano per le storielle inverosimili, la prosa scorrevolissima, le stramberie dei personaggi come Plasson, pittore che dipinge il mare con l’acqua di mare dando perciò i brividi, e altre fregnacce simili. Di contro lo si disprezza per le idee campate in aria, la prosa soggetto-verbo-punto, la prolissità compiaciuta, la prepotenza del suo “Io in posa”, come lo definì Daniele Luttazzi, per non parlare degli a capo e i corsivi fini a se stessi se non a un’estetica che nelle intenzioni dovrebbe racchiudere la verità baricchiana ultima e indivisibile: io sono, voi non siete.
Si è sempre avvertita, palpabile, nella sua produzione, l’idiosincrasia per le masse da ammaliare a suon di best-sellers e soggiogare col complesso di inferiorità nei confronti di una letteratura alta, la sua, che non è alta e non è neppure letteratura, ma che riesce sempre a convincere tutti di essere l’una e l’altra. Clamorosamente.


Tre volte all’alba racchiude, rielaborandolo nella digestione, tutto il Baricco precedente, rivelandone un’insperata nuova linfa dopo le deprimenti debacle di Emmaus e Mr. Gwyn. Quest’ultimo ci mostrava un Baricco inedito, più esile e senza svolazzi troppo irritanti, attento a non cadere in voragini terribili ma, putroppo, parimenti privo dei picchi straordinari di altri suoi libri, tanto traballanti e annichiliti quanto coerentemente irrisolti: era ormai un Baricco senza Baricco, intristito e inutile, la cui creatura più prescindibile, Jesper Gwyn, accennava a un’opera di uno scrittore fittizio, dal titolo (appunto) di Tre volte all’alba. Un’eco suggestiva che da pozzanghera si è fatta mare, obbligando l’autore a tuffarcisi per riemegerne, pochi mesi dopo, con questo libriccino di novanta pagine che, udite udite, sono quanto di meglio abbia scritto Baricco dai tempi di Novecento: non così geniale e memorabile, e con appena un paio di perle, ma come questo maturo, essenziale, compiuto.
E pazienza se le tre ore di lettura godereccia trascoloreranno in fretta nel ricordo, come capita ai piaceri effimeri nel lenire il mal di vivere quotidiano. Piccole allegrie di ieri, che domani sono già finite.

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