domenica 9 dicembre 2012

Mah.



Ricapitoliamo. Questo cazzo di spread scende a 290. Io ero rimasto lì, non so voi. Lo spread è a 290. La Repubblica, in un numero storico da collezione, presentava il titolone corredato degli schizzi scannerizzati di Scalfari in effetto seppia.
Ormai doveva per forza andare tutto bene, c’eravamo acchetati. Ancora un anno di tagli, di sanità devastata, di Scuola destituita, e sarebbe tornato tutto più o meno normale, nella placida deriva di una rassegnazione europeista graveolenta come gli schizzi di un novantenne ambizioso su una democrazia ancora in attesa di uno sfogo perlomeno adolescenziale.
C’eravamo quasi abituati, a Monti. Il nonno Monti. Quello che vai a trovare la domenica, dopo la messa, e, ogni tanto, ti cucina qualche piatto buono per farti credere che ti vuol bene mentre lo schifi esattamente come la fica amazzonica della moglie.
Temo che i problemi derivino tutti da qui. Siamo gente infelice, che tromba poco e male, adusa a rifarsi delle proprie frustrazioni su individui e contesti che nulla vi hanno a che fare.
Monti, imbevuto com’è di quella meritocrazia misurabile col righello, in modo semplice, primitivo, lineare come lo smantellamento dello stato sociale perpetrato con i fili che si ingarbugliavano troppo di rado,  somigliava, somiglia, troppo, alla trasposizione di sé che l’italiano medio cova segretamente nell’irrisolvibilità metempsicotica delle doglie genitoriali. Quell’italiano che guarda intriso di spaventata ammirazione il neo-laureato figlio della retorica oscena dell’ultimo spot Enel.
Berlusconi, invece, continua a somigliare all’ologramma che l’italiano medio tende a prefigurarsi nei suoi sogni a suo dire migliori. L’Italiano che vuole scopare, comandare e sentirsi ggiovane anche a novantadue anni, continuerà a votarlo in eterno, reiterandosi in tanti nuovi ggiovani vecchi pronti a porgere terga prematuramente avizzite per esautorare definitivamente la Storia e le sue innumerevoli lezioni mai colte.

C’è un canale nella mia città, che è una gran brutta città. Ci sarebbe anche il mare, ma se ne sta nascosto dietro il comignolo di una centrale a carbone che ogni tanto sputacchia porcherie in giro. Percorrendo il canale, tra anziani bavosi che commentano un culo insolitamente riuscito per quei lidi, sobbalzante in cerca di fisicità impeccabile, si arriva al cantiere navale. Alle cinque, un esercito di operai bengalesi in bicicletta si ritirano nel biasimo generale dopo una giornata china a ingollare frammenti e profluvi di lana di vetro.
E’ un lavoro di merda, mi raccontava Daniel, ma è un lavoro. Lo è all’Ikea, Daniel, lo so, figuriamoci in cantiere.
Mario l’ha perso. A cinquant’anni, una moglie e due figli piccoli, Mario ha perso il lavoro. E’ una brava persona, nella media delle persone mediamente buone. Lavora(va), si fa la sua vita, non rompe i coglioni a nessuno. Due giorni fa, forse tre, è venuto a trovarci a casa. Stavo traducendo Cornelio Nepote (che palle, Nepote). Mario ha iniziato a parlare, non ha più smesso per un’ora.
Il voto a Bersani. Grillo come Hitler. I grillini che minacciano di morte la Salsi, che si sarà pure esposta perché non poteva partecipare alle parlamentarie e si era affezionata alla poltrona, ma non si fa. I grillini sono violenti. Con Bersani non cambia nulla, ma sanno che hanno un’ultima possibilità, poi la gente va giù di forconi. Grillo non ha un programma.
Ha detto una frase, davvero sensata. Una sola.
“State attenti, voi giovani, ché appena ce ne andiamo noi e con noi le pensioni, vi cacciano in mezzo a una strada. Dovete darvi una svegliata. Incazzatevi. Quando saremo morti noi, ce l’avrete durissima. Fate qualcosa.”
Facciamo qualcosa.

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