Ricapitoliamo. Questo cazzo di spread scende a 290. Io ero
rimasto lì, non so voi. Lo spread è a 290. La Repubblica, in un numero storico
da collezione, presentava il titolone corredato degli schizzi scannerizzati di
Scalfari in effetto seppia.
Ormai doveva per forza andare tutto bene, c’eravamo
acchetati. Ancora un anno di tagli, di sanità devastata, di Scuola destituita,
e sarebbe tornato tutto più o meno normale, nella placida deriva di una
rassegnazione europeista graveolenta come gli schizzi di un novantenne
ambizioso su una democrazia ancora in attesa di uno sfogo perlomeno
adolescenziale.
C’eravamo quasi abituati, a Monti. Il nonno Monti. Quello
che vai a trovare la domenica, dopo la messa, e, ogni tanto, ti cucina qualche
piatto buono per farti credere che ti vuol bene mentre lo schifi esattamente
come la fica amazzonica della moglie.
Temo che i problemi derivino tutti da qui. Siamo gente
infelice, che tromba poco e male, adusa a rifarsi delle proprie frustrazioni su
individui e contesti che nulla vi hanno a che fare.
Monti, imbevuto com’è di quella meritocrazia misurabile col
righello, in modo semplice, primitivo, lineare come lo smantellamento dello
stato sociale perpetrato con i fili che si ingarbugliavano troppo di rado, somigliava, somiglia, troppo, alla
trasposizione di sé che l’italiano medio cova segretamente nell’irrisolvibilità
metempsicotica delle doglie genitoriali. Quell’italiano che guarda intriso di
spaventata ammirazione il neo-laureato figlio della retorica oscena dell’ultimo
spot Enel.
Berlusconi, invece, continua a somigliare all’ologramma che
l’italiano medio tende a prefigurarsi nei suoi sogni a suo dire migliori.
L’Italiano che vuole scopare, comandare e sentirsi ggiovane anche a novantadue
anni, continuerà a votarlo in eterno, reiterandosi in tanti nuovi ggiovani
vecchi pronti a porgere terga prematuramente avizzite per esautorare definitivamente
la Storia e le sue innumerevoli lezioni mai colte.
C’è un canale nella mia città, che è una gran brutta città.
Ci sarebbe anche il mare, ma se ne sta nascosto dietro il comignolo di una
centrale a carbone che ogni tanto sputacchia porcherie in giro. Percorrendo il
canale, tra anziani bavosi che commentano un culo insolitamente riuscito per
quei lidi, sobbalzante in cerca di fisicità impeccabile, si arriva al cantiere
navale. Alle cinque, un esercito di operai bengalesi in bicicletta si ritirano
nel biasimo generale dopo una giornata china a ingollare frammenti e profluvi
di lana di vetro.
E’ un lavoro di merda, mi raccontava Daniel, ma è un lavoro.
Lo è all’Ikea, Daniel, lo so, figuriamoci in cantiere.
Mario l’ha perso. A cinquant’anni, una moglie e due figli
piccoli, Mario ha perso il lavoro. E’ una brava persona, nella media delle
persone mediamente buone. Lavora(va), si fa la sua vita, non rompe i coglioni a
nessuno. Due giorni fa, forse tre, è venuto a trovarci a casa. Stavo traducendo
Cornelio Nepote (che palle, Nepote). Mario ha iniziato a parlare, non ha più
smesso per un’ora.
Il voto a Bersani. Grillo come Hitler. I grillini che
minacciano di morte la Salsi, che si sarà pure esposta perché non poteva
partecipare alle parlamentarie e si era affezionata alla poltrona, ma non si
fa. I grillini sono violenti. Con Bersani non cambia nulla, ma sanno che hanno
un’ultima possibilità, poi la gente va giù di forconi. Grillo non ha un
programma.
Ha detto una frase, davvero sensata. Una sola.
“State attenti, voi giovani, ché appena ce ne andiamo noi e
con noi le pensioni, vi cacciano in mezzo a una strada. Dovete darvi una
svegliata. Incazzatevi. Quando saremo morti noi, ce l’avrete durissima. Fate
qualcosa.”
Facciamo qualcosa.
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